Genocidio. Una parola pericolosa da pronunciare. Una parola che mescola il sangue e la paura, l’orgoglio e il nazionalismo, l’odio e la ripicca. Li impasta insieme. Li confonde. Li  sconvolge completamente. E poi esplode. E quando esplode lo fa in maniera irrazionale e perversa, malefica e vendicativa. Non pensa, agisce.

Oggi per l’ Organizzazione delle Nazioni Unite costituiscono genocidio “gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Dalla giurisprudenza è definito un crimine contro l’umanità, poiché comporta la morte di migliaia, a volte milioni, di persone e la perdita di patrimoni culturali inestimabili. Fu un giurista polacco di origine ebraica, studioso ed esperto del genocidio armeno, a coniare questo termine nel 1944, vedendo la necessità di un nuovo termine per descrivere l’Olocausto. Il suo nome è Raphael Lemkin.

E’ stato ritenuto indispensabile creare un nuovo termine per indicare l’empietà perpetrato dalla Germania nazista e dai suoi alleati nei confronti degli Ebrei.

E’ stato ritenuto indispensabile, inoltre, ammettere il ventisette gennaio come “Giornata della Memoria”, al fine di ricordare, così recita l’articolo 211 del Parlamento Italiano, la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.

Elisa Splinger, scrittrice austriaca, naturalizzata italiana, direbbe che questo è un dovere.  Un dovere verso tutte quelle stelle dell’universo che il male del mondo ha voluto spegnere.

Il male del mondo o il male dell’uomo? Arthur Schopenhauer non avrebbe dubbi: il male dell’uomo. Quel meschino, viscido e insensato piccolo piacere nel vedere soffrire gli altri esseri umani. Rivoltante, ma ci appartiene. E la storia lo dimostra.

Il fardello della storia umana, infatti, non è soltanto Auschwitz, semmai ne è l’apice, l’apogeo, il culmine.

Oltre alla cosiddetta “tratta atlantica” espressione che si riferisce al commercio di schiavi di origine africana attraverso l’oceano Atlantico fra il XVI e il XIX secolo, il Congo fu brutalmente raso al suolo in seguito alla militarizzazione del lavoro forzato (con donne e bambini presi in ostaggio in cambio di manodopera) ad opera della politica del re belga Leopoldo II. Un vero e proprio genocidio è rintracciabile già nello sterminio degli Herero, nella regione dell’attuale Namibia, per opera dei tedeschi tra il 1904 e il 1905.

Per quanto  riguarda i campi di concentramento, un primigenio modello è rinvenibile nell’Inghilterra del XIX secolo con le “workhouses”, dove venivano rinchiusi i senza tetto, le prostitute, i ladruncoli e gli alcolizzati, obbligandoli a lavorare per produrre. Impiegati, quindi come fonte di profitto. Ma non è tutto. Durante la prima guerra mondiale, infatti, la polizia politica dell’URSS, unione delle repubbliche socialiste sovietiche, istituì dei prototipi di campi di concentramento, nonostante il tentativo di celarne l’essenza fondamentale con il nome di “Gulag”, enfatizzando, quindi, lo spirito del cosiddetto “lavoro correttivo”. In realtà, il lavoro carcerario non era più concepito come fonte di guadagno, bensì come punizione e metodo di tortura in cui la violenza era unicamente fine a se stessa, volta solamente all’inflizione di dolore. I detenuti, esposti a condizioni climatiche ostili (i Gulag erano principalmente situati in Siberia) erano costretti a svolgere le loro mansioni in assenza di un’alimentazione adeguata e facilmente abbandonati a malattie mortali e contagiose. Le condizioni erano così insopportabili da costringere alcuni prigionieri a provocarsi volontariamente gravi lesioni o addirittura amputazioni, pur di restare a riposo per un certo periodo.

La testimonianza dello scrittore russo, Aleksandr Isaevič Solženicyn, conferma lo spirito, l’ideologia e le finalità che accomunavano sia i campi di concentramento nazisti, sia quelli comunisti: “Per fare le camere a gas, ci mancava il gas”.

A causa della controversa definizione di genocidio, ritenuta universalmente valida soltanto per l’Olocausto degli ebrei, risulta estremamente complesso stipulare una lista precisa degli stermini di massa più salienti della storia. Tuttavia, senza ombra di dubbio, l’elenco sopraindicato includerebbe un numero non esiguo di episodi, ad’ulteriore conferma della mancata socievolezza umana.

L’uomo rincorre il potere, vuole dominare. L’estenuante bisogno di prevaricare sugli altri, anche quando questo richiede conseguenze brutali, ferine, spietate e gravose per lo stesso genere umano, non lo abbandona mai. Non vi è occasione in cui l’essere umano si accontenti di fronte all’evidenza: nemmeno l’empietà crea un deterrente valido all’azione.

La duplice valenza umana è evidente fin dal principio della sua storia millenaria: l’uomo è capace d’imprese grandiose, d’innovazioni imponenti e di progressi singolari in ogni campo. La storia è opera dell’uomo, dei suoi pensieri, dei suoi gesti, della sua intelligenza, della sua creatività e del suo continuo rinnovarsi. Ma allo stesso tempo, inevitabilmente, essa è assoggettata dalle sue scelte. L’uomo sceglie continuamente: sceglie chi deve sopravvivere. Non si tratta di semplice selezione naturale, si tratta di decisioni, spesso irreversibili, ad opera dello stesso genere umano. La storia, però, ha una sua ciclicità, il che permette di stilare delle previsioni piuttosto attendibili sul suo corso. Le stragi, i massacri, le torture, le soppressioni delle rivolte sono tutte unite da un sottile filo conduttore che, se analizzato, può essere arginato, addirittura evitato.

Ecco a che cosa serve la memoria: a non dimenticare mai, a non perdere mai di vista, nemmeno per un secondo, questo filo conduttore. Questo filo conduttore può rappresentare la svolta, il cambiamento epocale. Può rappresentare una missione, quella dell’intera umanità. Soltanto rievocando, raccontando, smuovendo la coscienza della massa e risvegliando la mente dei sopravvissuti è possibile vincere. Ecco a cosa serve la giornata della memoria, a vincere. Ma non a vincere il tremendo ricordo della Shoah: a vincere il tremendo ricordo della tratta atlantica, dello sterminio degli Herero, delle workhouses, dei Gulag, solo per citarne alcuni. Una giornata della memoria universale: una giornata della memoria per le vittime di tutti i tempi.

Elena Tonsigh 5M

Antologia della Memoria realizzata dai ragazzi del Liceo Scientifico Grigoletti di Pordenone