Con il termine olocausto in ebraico Shoah (“catastrofe”, “distruzione”) è indicato il genocidio perpetrato dalla Germania nazista e dai suoi alleati nei confronti degli ebrei d’Europa. Accanto agli ebrei i nazisti uccisero anche altri gruppi (tra cui zingari, omosessuali, Pentecostali, Testimoni di Geova e altri); aggiungendo anche questi gruppi il totale delle vittime del nazismo è stimabile tra i dieci e i quattordici milioni di civili oltre a quattro milioni di prigionieri di guerra.

Molti storici ritengono che l’obiettivo dello sterminio fisico degli ebrei non fosse fin dall’inizio il fine ultimo della politica antiebraica nazista e che, almeno fino al 1938, era ipotizzata l’emigrazione in massa degli stessi.

Il processo di distruzione degli ebrei d’Europa richiese una precisa pianificazione. La burocrazia tedesca elaborò  una serie di disposizioni amministrative per identificare gli “ariani” e “non ariani”. Il primo decreto del 7 aprile 1933 definiva “non ariani” non solo gli ebrei puri (vale a dire con quattro nonni ebrei) ma anche gli ebrei per tre quarti, per metà e per un quarto. Successivamente le leggi di Norimberga del settembre 1935 (“legge per la protezione del sangue e dell’onore tedeschi” e “legge sulla cittadinanza del Reich”) esclusero le persone definite “ebrei” da ogni aspetto della vita sociale tedesca (la cosiddetta “soluzione economica del problema ebraico”). Gli ebrei tedeschi vennero quindi estromessi dalla funzione pubblica  che portò al licenziamento di dipendenti statali, medici, avvocati e militari. Il passaggio successivo furono le cosiddette “arianizzazioni” delle attività ebraiche, nei servizi, nell’industria e nel commercio; tutte le imprese  e le proprietà immobiliari ebraiche vennero trasferite ai tedeschi.

L’inizio della seconda guerra mondiale nel 1939 e l’invasione della Polonia provocarono un radicale cambiamento della “questione ebraica” e l’attivazione da parte del Reich di nuove iniziative sempre più dure; nello spazio di poche settimane la Germania occupò territori in cui vivevano quasi 3 milioni di ebrei. In un documento del dicembre 1940 comparve per la prima volta l’espressione “soluzione finale della questione ebraica”  fino ad allora ancora identificata nel trasferimento di circa 5,8 milioni di ebrei “al di fuori dello spazio economico europeo, in un territorio da definire”. Nel 1941 si accelerò l’esigenza di studiare e risolvere i problemi organizzativi e tecnici relativi alla teorizzata “soluzione totale”. Ciò potrebbe sembrare controproducente ai fini dell’utilizzo di forza lavoro coatta per la macchina bellica del Reich peraltro, molti studiosi ritengono che tale decisione possa essere ricondotta alle difficoltà pratiche di mantenimento di milioni di ebrei nei ghetti con conseguenti problemi sanitari, igienici e di sostentamento e, naturalmente a motivazioni ideologiche. Inoltre, era particolarmente importante per il Reich fornire un ammonimento esemplare alle popolazioni occupate ed esaltare lo spirito di resistenza del popolo tedesco ponendolo di fronte, con la concreta realtà dello sterminio, all’alternativa radicale del suo annientamento o di quello dei suoi nemici mortali.

Ciò è quanto ho letto nei libri di storia. Un susseguirsi di date, fatti, motivazioni, contesti storici e sociali, interpretazioni sull’assurdità di quanto successo e soprattutto esortazioni a ricordare e a riflettere, a ribellarsi al “disumano”.

Anche mio nonno, nato nel 1920, ha partecipato – prima come soldato e dopo l’8 settembre 1943 come prigioniero militare deportato nei campi di lavoro “Lager XI” a Braunschweig fino a ottobre del 1944 e a Riklingen  nei pressi di Hannover fino a ottobre del 1945 – alla follia della guerra. Nei suoi discorsi, pur censurati per non spaventare un bambino di sette anni, traspariva ugualmente tanto dolore, tanta fame (presente in modo ossessivo ancora a distanza di oltre 50 anni dalla fine della prigionia) e tanta paura di non tornare più a casa.

Io sono nato nel 1995 in una Repubblica democratica oggi impegnata con altri ventisei Stati europei a realizzare un percorso di unione economica e monetaria. La mia persona è tutelata dalla  Costituzione e da molti altri atti legislativi internazionali che riconoscono e garantiscono i diritti inviolabili dell’uomo, tra cui la pari dignità sociale e l’uguaglianza davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.  Tutto questo mi sembra assolutamente normale; non mi sono mai soffermato a riflettere che, un giorno,  ciò possa essere messo in discussione o che qualcuno si ponga alla guida del Paese e decida chi deve vivere e chi deve morire. Eppure è successo molte e molte volte e continua ancora a succedere in diverse parti del mondo.

Il pericolo che tutto cambi nella nostra indifferenza e rassegnazione è ben narrato nel libro di Fred Uhlman “L’amico ritrovato”. E’ la storia di due ragazzi tedeschi sedicenni che scoprono  che quanto fino ad allora avevano dato per scontato e normale improvvisamente fosse cambiato, senza che i più l’avessero capito. Sono due liceali, uno figlio di un medico ebreo, l’altro appartenente ad una ricca famiglia aristocratica, tra i quali nasce un’amicizia del cuore, intensa, perfetta, costruita su idee, passioni e progetti comuni. Un anno dopo, nel 1933, il loro legame è spezzato. Hans viene mandato dai propri genitori a vivere presso una zia in America. I suoi genitori invece decidono di rimanere a Stoccarda, la loro città natale, perché prima ancora di essere ebrei si sentono tedeschi e amano il loro Paese, i “colli azzurrini di Svevia e la Foresta Nera”, i loro vicini di casa e i pazienti curati in ambulatorio. Le strane “cose” che si sentono contro gli ebrei non possono essere null’altro che le sciocchezze di qualche esaltato. Il loro Paese, il Paese che loro amano li proteggerà. Si suicidano con il gas prima di essere arrestati nel 1938. L’altro ragazzo è Konradin conte di Hohenfels, si arruola nell’esercito nella convinzione di servire fedelmente il suo Paese. I due amici separati nulla sanno l’uno dell’altro. A distanza di oltre trent’anni dalla fine della guerra Hans, che vive ancora in America, riceve una richiesta di contributo da parte del suo vecchio liceo il “Karl Alexander Gymnasium” di Stoccarda per la costruzione di un monumento funebre alla memoria degli allievi caduti durante la seconda guerra mondiale. Con  rabbia e dolore Hans scorre i nomi dei caduti ritrovando tra di essi quelli di molti ragazzi che a scuola lo avevano umiliato e deriso per essere un ebreo. Quando arriva alla lettera “H” con il cuore che batte forte Hans legge:  “Conte Von Hohenfels, Konradin, implicato nel complotto per uccidere Hitler, GIUSTIZIATO”. La storia finisce così.  A ciascun lettore il compito di trovare in tanto dolore la speranza nell’amicizia di due ragazzi sedicenni che nulla avevano capito di quanto stava succedendo.

Le parole di Elisa Springer . . .  “La nostra voce e quella dei nostri figli, devono servire a non dimenticare e a non accettare con indifferenza e rassegnazione le rinnovate stragi di innocenti . . . I giovani liberi devono sapere, dobbiamo aiutarli a capire che tutto ciò che è stato storia, è la storia oggi, si sta paurosamente ripetendo” . . . sono il giusto monito a tutti noi  affinché  gli orrori delle stragi nel mondo non si ripetano ancora nell’indifferenza generale giustificata dal “io non posso fare nulla”.  Nessuna idea politica o fede religiosa può giustificare la prevaricazione di alcuni uomini su altri uomini e ognuno di noi può invece fare molto per impedire . . . “i mille e mille fiori calpestati e immolati al vento dell’assurdo; è un dovere verso tutte quelle stelle dell’universo che il male del mondo ha voluto spegnere”. . . L’esortazione “a non dimenticare” è  imperativa alla luce di un atteggiamento che si sta diffondendo con il nome di negazionismo.  Il negazionismo è la concezione che tende a negare o almeno a ridimensionare lo sterminio degli Ebrei da parte del nazismo. Donatella di Cesare con il suo libro “Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo” spiega con grande chiarezza il significato  e l’ampiezza di tale fenomeno che dalla Germania e dall’Austria dove si trovano i suoi maggiori sostenitori si è esteso nell’Europa dell’Est e in Medio Oriente (tra cui spicca il programma negazionista del governo iraniano in essere fin dai tempi di Khomeini e oggi portato avanti dall’attuale Presidente  Mahmud Ahmadinejad  che vorrebbe la cancellazione di Israele dalla mappa geografica tramite l’arma nucleare).

Inizialmente i nazisti filmarono le loro gesta  per tramandarle ai posteri; poi, a partire dal 1944 le SS iniziano a distruggere le tracce dei loro delitti bruciando gli elenchi dei convogli dei deportati e nel 1945 fecero saltare in aria numerose camere a gas e forni crematori. Sono emblematiche le terribili parole che i nazisti dissero a Primo Levi riportate nel suo libro “Se questo è un uomo”: “Nessuno di voi sopravvivrà e anche se qualcuno riuscisse a sopravvivere e raccontasse quanto accaduto, non sarà creduto”. Secondo l’autrice con la divisione della Germania e la creazione nel 1949 della Repubblica Democratica Tedesca  (Germania dell’Est)  e soprattutto con la Guerra Fredda  inizia un opera di “denazificazione” all’insegna della “amnesia e dell’amnistia”, tutta la “COLPA” viene scaricata esclusivamente sul gruppo dirigente nazista; per contro il popolo tedesco con un Paese ridotto a un cumolo di macerie e il dramma di oltre dieci milioni di concittadini cacciati dalle province orientali e depredati dall’Armata Rossa finisce per convincersi di essere la prima e unica vittima del conflitto. Auschwitz viene “dimenticato” dalla coscienza nazionale. Secondo l’autrice chi nega l’esistenza della Shoah persegue un preciso intento politico che può essere così riassunto: “la Shoahè un mito costruito con perizia dagli Ebrei per fondare lo Stato di Israele a danno del popolo palestinese o nell’ipotesi più benevola Israele rappresenta un regalo europeo al Popolo ebraico come risarcimento di quanto subito”.

“Il treno della memoria” è quindi l’occasione per riflettere non solo sulla Shoahe sull’odio ancora presente verso il popolo israeliano ma anche su ciò che conta veramente nella mia vita, per acquisire maggiore consapevolezza di che tipo di persona voglio essere. E’ il modo per esprimere la mia gratitudine per essere un “giovane libero” verso i milioni di uomini e donne che hanno sofferto e combattuto nell’idea di un mondo migliore. Non voglio avere paura del mondo che mi circonda, del “diverso” o di ciò che non conosco; le enormi opportunità che mi sono offerte, attraverso la scuola, internet, i libri, la televisione, ecc., di conoscere e  capire devono servirmi ad aprire gli occhi e pensare autonomamente al di là dei luoghi comuni e della logica dell’egoismo. In un contesto sociale dove sembra esistere soltanto l’individualità e l’affermazione del potere del singolo, dove la politica non è al servizio della collettività ma di singole lobby potere, dove l’etica e la morale sembrano avere contorni indefiniti,  voglio ugualmente poter credere che ciascuno di noi possa fare qualcosa per la società in cui vive ed assumersi la responsabilità come individuo e cittadino di essere garante del bene comune.

Luca Truccolo 4E 

Antologia della Memoria realizzata dai ragazzi del Liceo Scientifico Grigoletti di Pordenone