Missione quasi compiuta

Sette parole più un’idea ancora “orfana” del proprio neologismo: questo è il bilancio della mattinata di riunione alla Casa del Quartiere di San Salvario, senza dubbio un risultato notevole. Ma non è finita qui, e dopo la pausa pranzo si è pronti a ricominciare, con un riepilogo di quanto si è detto finora. Così, a parole ormai date per certe come “onnifood” e “eteriderio” si affiancano dei neologismi che a qualcuno non vanno proprio giù. Lo “smisuratesimo” e la “vincolofobia” sono particolarmente osteggiati: il primo subisce il peso della propria assonanza al nome di una religione, mentre la seconda pare troppo tecnica, quasi ampollosa, per descrivere un fenomeno che in realtà sembra essere quotidiano, un po’ visto e provato da tutti noi.

Chiudere le dieci parole: “violenzio” o “consubismo”?

Non ci muoviamo, però, subito nella ricerca di sinonimi più adatti: nella prima parte della riunione pomeridiana cerchiamo di chiudere la rosa delle dieci parole, per poi concentrarci sul perfezionamento di quelle già trovate. Ed è così che emerge un’idea interessante ed attuale, una sensazione che probabilmente è un po’ di tutti in questo momento storico: il subire in silenzio, sentendo di non riuscire a reagire ad una situazione; ma per qualcuno questo subire continuo diventa un modo di vivere ogni giorno, una gabbia da cui non si riesce ad uscire o ancora, a volte, una scelta lucida e consapevole. Nonostante il concetto stimolante, non troviamo per ora un termine veramente convincente: c’è una certa sfida fra i sostenitori di “violenzio” e quelli di “consubismo”, ma si capisce che in realtà nessuno è veramente convinto di queste due parole.

La vittoria delle “disonestar” 

Dopo essere passati per varie idee, tutte rifiutate per un motivo o per l’altro, Alberto ne ha una particolarmente geniale. Dice che oggi le persone vengono considerate dei modelli se si comportano in modo disonesto – “chi frega è un genio” – e quindi si cerca di imitare questi nuovi idoli con altrettanta disonestà. Il modello cui Alberto pensa unisce in sé un’attitudine da tipico “furbetto” italiano al fermo orgoglio di comportarsi in modo disonesto. Nascono così l’”orfuzia”, subito cassata perché troppo simile al nome di “un’escrescenza della pelle”, e il “furgoglio” che incontra invece il favore di molti di noi: del resto, contiene anche la parola “imbroglio”. Ma a trionfare, alla fine, sarà “disonestar”: le star del terzo millennio non sono più grandi cantanti o attori, ma semplicemente persone che hanno usato la propria furbizia – in senso ovviamente negativo – per arricchirsi e diventare potenti.

“Svivere, è passato tanto tempo”

Non incontra lo stesso favore il concetto del “tirarsi fuori”, quel cercare di discolparsi alzando le mani, ignorando le proprie responsabilità, così come il fatto di seguire la massa sempre e comunque, identificato dalla parola “massegugio”; ma dal concetto di inerzia che questa sottintende nasce “svivere”, proposta da Luca. Svivere è vivere in modo passivo, senza spunti, abitudinariamente e senza cercare di migliorare qualcosa in noi o in quello che ci sta intorno. Nonostante sembri banale, funziona bene: ricorda anche la canzone di Vasco Rossi “Vivere”, e alcuni di noi si mettono subito a cantarla. Abbiamo la decima e ultima parola, anche grazie all’eliminazione di “disimpressionismo”, che rimanda troppo all’impressionismo in arte.

Vincolofobia e vicolansia: la parola che non viene fuori

La seconda parte del lavoro è quindi cercare di migliorare ciò che abbiamo, a parte per i termini ormai certi come “monetica” e “disfuturi”. Partiamo da “vincolofobia”, che continua a non convincere tutti. Viene proposta una parola alternativa, la “vincolansia”, all’apparenza meno tecnica ma purtroppo omofona della frase “vinco l’ansia”: un concetto che si nega da solo, interessante ma poco chiaro, soprattutto nel parlato. Anche “smisuratesimo” viene bocciato: troppo somigliante ad una religione e poco attinente al concetto originale, che era più il vivere oltre le proprie possibilità, cercando sempre di avere più di quanto non si possa. Ma è proprio negli ultimi minuti che spunta fuori “sovravvivere”. “Troppo simile a svivere”, sostengono alcuni, ma che in breve tempo riesce a imporsi come valida alternativa. Manca ancora una parola per esprimere la paura dei legami, riusciremo a trovarla?

di Marco Melatti, scuola Vincenzo Gioberti