Oggi, 14 maggio, al Salone del Libro 2015, Mario Calabresi, con la collaborazione di Umberto Gentiloni, ha presentato il suo nuovo reportage “Bombardare Auschwitz” basato sul racconto di Tatiana e Andra Bucci della loro deportazione ad Auschwitz durante la seconda guerra mondiale, all’epoca bambine. L’idea è nata durante uno dei viaggi ad Auschwitz in cui gli studenti, con il treno della memoria, hanno avuto la possibilità di incontrare i testimoni e ripercorrere i passi di una terribile catastrofe.

L’incontro è incentrato su una domanda fondamentale: perché nessuno ha bombardato i treni, la ferrovia, il campo dopo che ormai era risaputo che accadessero cose mostruose ? Perché è stato fermato solo quando le truppe sovietiche sono arrivate?

Le persone normali non hanno idea delle motivazioni storiche per cui non è successo.
Tre sono le situazioni che avrebbero potuto aiutare i servizi segreti ad organizzare un bombardamento durante la guerra: alcune storie di fuggiaschi che, nell’aprile del ’42, portarono fuori notizie su ciò che avevano visto nei campi, la svolta data dallo sbarco in Normandia, che avrebbe permesso di ipotizzare raid aerei su rotte utilizzate per scopi diversi e la deportazione della maggiore comunità ebraica dell’epoca, quella ungherese.
“Solo una vittoria finale avrebbe permesso di liberare tutti.” Ha detto Gentiloni.
La conferenza si incentra sul racconto di Tatiana Bucci, testimonianza diretta di questa enorme reportazione: all’epoca bambina, venne catturata nel ’44 insieme a sua sorella, sua mamma e suo cugino. Vennero dapprima portati in una città, dove rimasero circa un giorno, in seguito vennero deportati al campo di Birkenau su quello che era diventato praticamente un treno merci. Un ricordo ancora molto vivido va alla nonna durante il viaggio in treno, quando, racconta Tatiana, vi era un clima di sconforto non solo perché erano ammassati l’uno sopra l’altro in condizioni pessime, ma anche perché era chiaro che il loro destino stesse andando non semplicemente verso un campo di lavoro, ma verso qualcosa che sarebbe stato molto peggio. All’epoca non si conoscevano gli orrori che avvenivano in quei luoghi mostruosi.
Tatiana racconta: – All’arrivo, dopo il tatuaggio, la mamma andò in una baracca per le donne e, quando poteva, veniva a parlare con noi e ci ripeteva nome e cognome. Ma mi chiamava “Liliana Bucci”. E’ venuta talmente tante volte che mi sono dimenticata di chiamarmi Tatiana. La mamma non venne più. La mamma è morta. La vita continua. Non abbiamo pianto all’idea che fosse morta. La vita lì era la morte. Vedevamo morti ovunque, venivano accatastati vicino alla nostra baracca, li vedevamo sempre, non ci impressionavano nemmeno, era normale che la mamma si trovasse in quel cumulo.
Tra i sopravvissuti gli adulti credevano che a Birkenau non ci fossero bambini, ma lo dicono perché quando uscivano al mattino e tornavano alla sera noi eravamo nella baracca- continua a raccontare Tatiana: – La vita continua finché i colori nel campo cambiano. I tedeschi se ne vanno, ci sono altri militari. Sono russi. Noi non ce ne siamo resi conto. Ma loro sorridevano e ci trattavano diversamente: ci davano da mangiare. La guerra è finita, rimaniamo ancora un mese o due lì, forse siamo state trasferite ad Auschwitz e a Praga in un centro di raccolta per bambini rimasti soli, ma noi non ci ricordiamo. Iniziamo a frequentare la scuola, imparando il tedesco. Dimentichiamo la nostra lingua e impariamo il ceco. Stiamo lì per un anno. Fino aprile del 46. Ci chiedono “Chi di voi è ebreo?”. Facciamo un passo avanti in 5. Gli altri bambini sono stati con noi tutto il tempo del nostro soggiorno a Birkenau ma noi ce li ricordiamo solo da quel momento in poi.
Ci imbarcano su un aereo militare, era il nostro primo volo. Di sera, arriviamo in Inghilterra a Linkfield, in un cottage che Sir Benjamin Drake, un ebreo, aveva messo a disposizione dei bambini sopravvissuti. Era stupendo. Come prima cosa ci portano nella sala giochi . Io mi sono sentita rinascere quasi subito. Siamo rimaste da aprile a dicembre del ’46.
Tatiana racconta commossa la storia che le ha cambiato la vita.
Una giorno, a Linkfield, la preside del centro le mostra una foto: un uomo e una donna, felici, il giorno del loro matrimonio.
Erano mamma e papà, – dice Tatiana: – lei aveva avuto un’idea che mi ha permesso di ricordare. Ci ha fatto arrivare la foto che ci mostrava sempre, a Fiume, a casa, ogni sera prima di metterci a letto, per dare la buonanotte a papà. Non avremmo mai potuto dimenticarla. I miei genitori non erano morti. Erano venuti a cercarci, proprio quando noi eravamo ormai convinte di essere rimaste sole. Siamo state solo io e Andra per molto tempo, ero diventata io la mamma e lei la bambina. Lei si è sentita abbandonata da me, a volte. I nostri genitori sono venuti a prenderci. Ci hanno riportate a casa. Non ne abbiamo mai più parlato: la gente non capiva, si pensava fossimo pazze.
Alla conferenza, sullo stesso tema, è intervenuta Francesca Paci giornalista della Stampa che, nell’occasione dei 70 anni dalla liberazione del campo di Auschwitz, ha raccolto storie di sopravvissuti non italiani e non note in Italia.
Presenta l’eBook della Stampa “Se chiudo gli occhi muoio”, nel quale ha raccontato altre quattro storie di sopravvissuti. Alla domanda “Cosa hai trovato di comune nel racconto di Tatiana?” risponde: – La testimonianza della signora Bucci e le voci di chi rimane si intrecciano con il dato di fatto che i testimoni sono sempre meno. I bambini sopravvissuti sono i più giovani. Il 27 gennaio ero con i ragazzi del treno della memoria di Torino e della terra del fuoco e ragionavamo su quanto siano sempre meno i sopravvissuti.
Cosa succederà quando non ci sarà più nessuno a raccontare? I negazionisti avranno più materiale per affermare le loro tesi? Il confronto con chi l’ha vissuto, finché ancora c’è, non permette alcun dubbio.
Forse è per questo che ci teniamo tanto a raccontare. Tatiana e sua sorella non ne hanno parlato per cinquant’anni, continuando la propria vita come se nulla fosse, perché nessuno era pronto a parlarne. Adesso abbiamo aperto gli occhi e ci rendiamo conto che ci siano tante, troppe cose, che non possiamo più tenere nascoste. Allora ci facciamo raccontare, e ricordiamo.
Quindi, ricordiamocelo bene.
Francesca Romualdi e Anna Rudino
Redazione Alfieri