Oggi, 17 maggio, al Salone del Libro affrontiamo tematiche relative alla donna con il progetto Donne con la “A” dell’associazione Se non ora quando?, affrontando un tema su cui, a nostro giudizio (e non solo nostro!), non ci sarebbero troppe parole da spendere, quello della distinzione di genere nella lingua italiana.

Questa conferenza, tutta al femminile, parte con Nicoletta Maraschio che racconta quanto affrontare questi temi possa riscuotere reazioni a volte fin troppo violente, riferendosi alla sua personale esperienza nel comune di Firenze, e su quanto, secondo lei, proprio per questo, bisogni iniziare a riflettere su quanto chiamare le donne con la loro declinazione femminile sia importante.
Non trovano molto appoggio i sostenitori di questa iniziativa, non solo da parte degli uomini che, forse un po’ per egocentrismo, sembra non vogliano proprio riconoscere che le donne siano “al femminile”, ma anche da parte delle donne stesse.
Tra queste, la comica torinese Luciana Littizzetto, per la quale noi reporter nutriamo grande stima, che, in un articolo sulla Stampa, ha spiegato quanto dibattere su temi di natura linguistica e semantica non sia poi così utile, considerando che sicuramente la lingua italiana evolverà sulla stessa strada che ci ha portati a distinguere tra maestro e maestra, ma in modo tanto naturale che non serva ora aprire contestazioni sul perché la parola “ministra” non sia ancora parte del linguaggio comune.

Non è forse più importante il fatto che al vertice della Camera ci sia la presidente Boldrini, una donna? O spendere parole sul definirla “la” presidente? Lei ha chiesto apertamente di essere declinata “al femminile”, ma il risultato importante è proprio la sua presenza al governo, non il modo in cui si fa chiamare.

Secondo la Maraschio, invece, il riconoscimento di genere nei ruoli alti potrebbe assumere il significato di maggiore rispetto nei confronti delle donne che li ricoprono, aprendo grandi discorsi sulla resistenza culturale dei giorni nostri fatta tramite violenza, senza riconoscere il nuovo ruolo della donna.
Ma se una donna ricopre quel ruolo, cos’altro c’è da riconoscere?
Io sono una donna, penso al mio futuro e sono cosciente di come funzioni la società di oggi, ma credo che, nel contesto sociale in cui viviamo, sia più gratificante essere riconosciuta per i miei meriti in quanto me stessa, rispetto che per la cosa più naturale del mondo, essere donna.

Se davvero tutte si sentissero così a proprio agio con se stesse, non avrebbero bisogno di definire con teorizzazioni una declinazione al femminile che non solo viene spontanea nell’evoluzione della lingua italiana, ma anche naturale nella declinazione della donna stessa.
Fanno riferimento ad un fatto un po’ buffo, accaduto qualche tempo fa, quando il titolo in prima pagina di un giornale riportava “Il sindaco di Cosenza incinto, il padre è il segretario del PC”. Il vero problema è che “incinto” non esista nemmeno nella lingua italiana, e su questo hanno colto il punto.
Cercano di prenderla con filosofia e anche un po’ con ironia, ma certe donne non vogliono nemmeno farsi chiamare “al femminile”, poiché ritengono che essere chiamate con lo stesso appellativo degli uomini non sia un insulto, ma semplicemente il nome della professione che svolgono.
In senso opposto, noi ci siamo rese conto che questa differenziazione di genere possa portare a non poche incomprensioni: prendiamo come esempio il lavoro di grafico.
Un grafico è chi si occupa di grafica. Ma un grafico femmina? Diventerebbe la grafica. E dire che una grafica si occupi di grafica, incorre in giusto un paio di incomprensioni.

Noi, personalmente, apprezziamo tantissimo lo strenuo lavoro da parte dell’associazione Se non ora quando?, ma siamo fermamente convinte che, con altri temi, abbiano sollevato questioni decisamente più importanti.

Francesca Romualdi e Anna Rudino
Redazione Alfieri