Oggi a Portici di Carta viene presentato la “Passione ribelle” il nuovo libro di Paola Mastrocola. Con l’autrice ci sono anche Stefano Caselli e il direttore del salone del libro Ernesto Ferrero.
Stefano Caselli comincia l’incontro presentandoci il tema fondamentale del libro: lo studio è scomparso e sta scomparendo dalle nostre vite. Si parla di assenza di studio dalla scuola, ma anche di assenza dopo questa. Il libro non parla solo di studenti, ma anche di giornalisti o persone per cui lo studio sta cominciando a mancare sempre di più.
Interviene a questo punto la scrittrice.
Il mio libro poggia su un’idea molto semplice, su un’idea di studio. Per me studiare significa stare fermi per ore sulle parole di un libro, indugiando su queste, fino a memorizzarle, finché le parole passano dalla pagina alla nostra mente. Senza nessuna finalità.
Anche se questa definizione di studio mi sembra un’idea normale, nel mio libro ho trovato necessario ribadirla.
Studiare è una faccenda lunga, ma oggi noi non chiediamo più uno studio lungo. Studiare è qualcosa che riguarda il tempo è che ne occupa molto della nostra vita. Studiare è creare, ma oggigiorno noi siamo abituati a creazioni immediate. Viviamo in un mondo in cui pensiamo che uno scrittore possa scrivere un libro all’anno e questo ha effettivi devastanti, ad esempio sui giornali, che in questo modo non riescono ad occuparsi in maniera sufficientemente accurata delle pubblicazioni.
Petrarca ha passato tutta la vita a scrivere il “Canzoniere”,Manzoni ci ha messo vent’anni a scrivere “I Promessi Sposi” e molti scrittori venivano pubblicati postumi. Oggi invece siamo presi da una follia produttiva: dobbiamo produrre.
La pensa così anche la scuola o l’università, perché bisogna studiare e in fretta.
È un’idea di studio che è cambiata e che mi preoccupa. Oggi si chiede ai giovani di studiare tante cose, tante lingue, materie, troppi argomenti e in poco tempo, perché a scuola subito si è verificati. Ci sono verifiche quasi quotidiane, per cui uno studente deve studiare finalizzando lo studio alle verifiche. È così anche all’università: gli esami si sono moltiplicati e frammentati.
Questa è un’istituzione alla dimenticanza. Se uno studente dovesse preparare 500 pagine, sarebbe forzato a trovare un modo per ricordarle.
La cosa importante è che se questo metodo a una classe non piacesse, gli studenti potrebbero ribellarsi agli insegnanti e chiedere loro di cambiare metodo.
Bisogna lasciare ai ragazzi il tempo di studiare, il luogo e il modo con cui preferiscono farlo.
È tutto molto peggio, si. Io parlo spesso di declino e mi rendo conto che siamo in un periodo di declino culturale da molti anni ormai. E non facciamo altro che declinare.
Guardo opere come quelle di Aristofane, Sofocle, Orazio, di Michelangelo o come Notre Dame de Paris, e penso… siamo più in grado di costruire qualcosa del genere?
Nella storia abbiamo guadagnato altro certo, non andiamo più a cavallo e ci curano in maniera migliore, ma in altri ambiti, come quello della letteratura, abbiamo perso molto.
Il mio libro però parla di allegria, i naufraghi del mio libro sono allegri.
Interviene allora Ferrero, cercando di rispondere alla domanda posta dalla scrittrice “Perché una volta erano possibili grandi creazioni?”
Una volta c’era il tempo di maturare e crescere e nessuno per problemi di tempo e di pubblicazione ti spingeva a chiudere e finire un lavoro in poco tempo. Anche solo cinquant’anni fa c’era il tempo di crescere, ma oggi tutto ciò non esiste più. Siamo vittime di un’accelerazione spaventosa.
Anche ne “La Passione Ribelle” si racconta la giornata tipo dei ragazzi e questa gira intorno ad una frenesia pazzesca. È quindi molto difficile concedersi agli indugi di cui parla Paola. Lei parla dello studio in un’eccezione simile all’innamoramento. Una volta presi dallo studio, ogni altra attività diventa meno importante. Non si riesce a capire come mai i ragazzi non abbiano voglia di lanciarsi in questo innamoramento.
In realtà non è colpa loro, ma delle tante inefficienze dei sistemi, ed è anche nostra che non sappiamo accendergli delle lampadine.
La scrittrice riprende il discorso iniziato da Ferrero: in realtà siamo noi che non diamo loro la possibilità di vivere in questo modo. Dovremmo lasciare due o tre ore al giorno ai ragazzi per dedicarsi allo studio, a un libro o qualcosa di simile. Invece li trasportiamo in una vita frenetica senza lasciare loro del tempo.
In parte è la famiglia stessa che non predispone un tempo per lo studio.
Ho conosciuto genitori in crisi perché i figli studiavano troppo. Chi studia è un po’ asociale perché preferisce leggere piuttosto che giocare a calcio, e questa cosa disturba i genitori.
Se noi facciamo cadere lo studio lungo, perdiamo delle capacità cognitive complesse, e saremo sempre meno capaci di capire tutto ciò che è più complesso. E così perderemo Platone, Aristotele, Shakespeare o Elliot. Queste grandi opere, senza nessuno che possa capirle, moriranno.
Vorrei che la scuola e la famiglia aspirasse a una vita dove lo spirito è importante, non solo la materia. Stiamo facendo una scuola per trovare lavoro, sempre per un qualcosa. Bisogna togliere il “per”, solo così lo studio può assumere valore.
Io non credo che i nostri ragazzi siamo così felici di studiare “per”, in maniera competitiva e vorticosa.
Il libro si chiude con un’utopia. La scuola dovrebbe insegnare l’ozio, inteso come lo intendevano una volta i Greci e i Romani. L’ozio è il tempo libero che viene usato per lo studio. Questo concetto tuttavia è ormai stato perso.
Si è creata la palude del minimo indispensabile. Se consideriamo la scuola come qualcosa da far passare per forza, questo è un suicidio collettivo.
Questo purtroppo è un pensiero condiviso da molti.
Tuttavia credo che un barlume di speranza ci sia: esistono ancora persone, studenti che sanno apprezzare lo studio, o che comunque colgono la bellezza dello studio. Non c’è niente di più bello del riuscire a leggere un libro considerato difficile, riuscire ad apprezzare un’opera d’arte o capire un teorema di matematica. C’è chi riesce a capire questa bellezza e chi no, ed è chi decidere di non essere ozioso (sempre in teso nel senso antico del termine) che si perde tutto ciò.
Camilla Brumat
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