Piccola premessa: Gabriella Kuruvilla, una delle scrittrici che partecipa alla Quattordicesima edizione di Adotta uno scrittore è stata vincitrice del Concorso Lingua Madre nel 2007. Grazie alla collaborazione che da alcuni anni portiamo avanti con il Concorso pubblichiamo qui il racconto vincitore.
DOCUMENTI* di Gabriella Kuruvilla [India]
La cucina piena di elettrodomestici, cassetti, ante, ripiani, pentole, stoviglie, posate, cibi, bevande e spezie è esattamente com’era, mentre tu con il grembiule bianco calato sul corpo nero, ascoltando Bob Dylan e ballando sulla musica, cucinavi, apparecchiavi, sparecchiavi, pulivi e riordinavi. Dicevi: “E’ pronto: a tavola”, e noi quattro figli abbandonavamo le nostre occupazioni, entravamo nel tuo regno e ci buttavamo sui tuoi piatti, considerandoli sempre i migliori. Il tuo risotto alla milanese era ottimo, perfetto: mai crudo e mai scotto. Semplicemente perfetto. Adesso la cucina è esattamente com’era quando c’eri, solo che sembra una fotografia. La fotografia di un paesaggio immobile, senza odori, in cui manca il soggetto vivo. Tu, mio padre. Ci entro, provo a toccare degli arredi e a muovere degli oggetti. Provo a essere te, a farti rivivere nei miei gesti. Offro il mio corpo come simulacro della tua vita. Sono la tua marionetta. Ma non sono te, e mi manchi ancora di più da quando cerco di riprodurti. Smetto subito con questa macabra pantomima. Non cucino, non apparecchio, non sparecchio, non pulisco, non riordino. Non mangio neanche, non ho fame. Sono tre giorni che non ho fame. E’ dal funerale che non ho fame. Come in un film hollywoodiano noi quattro figli stavamo intorno alla tua bara, due da una parte e due dall’altra, vestiti di nero e con il capo chino. Con la mano destra ognuno di noi teneva in mano un ombrello, perché quel giorno chiaramente pioveva. Le gocce mi cadevano sul collo e mi scivolavano lungo la schiena. Era fastidio. Ti hanno coperto con della terra e dei fiori, inzuppati d’acqua. Poi ti hanno schermato con una pietra, non puoi uscire neanche volendo. Sei sigillato nel mondo sotterraneo. In balia dei vermi, temo. Adesso qui fuori c’è il sole, ospite inopportuno. Si è infilato senza pudore in casa tua, illumina e riscalda tutto quello che trova. Eccetto me, io non sto al suo gioco, mi sottraggo alla sua luce e al suo calore. Rimango buia e fredda, come sono, impregnata di dolore. Esco dalla cucina. Mi muovo attraverso le altre stanze, e ti vedo camminare. Ti seguo. Ti giri, mi sorridi, ti siedi sul divano e batti la mano sul cuscino. Mi dici: “Mettiti qui, figlia mia, vicino a me, raccontami come stai”. Mi abbracci. Mi appoggio alla tua spalla e cado sul bracciolo. E’ ridicolo, quello che sto facendo. Visto dall’esterno potrebbe sembrare lo sketch comico di un film muto. Charlie Chaplin, per esempio. E invece è la tua morte e la mia vita. Apro la porta della camera da letto: mi avvicino al materasso, accarezzo le lenzuola perfettamente tirate e risvoltate. Le muovo, le stropiccio, le butto di lato: erano così, quando ci dormivi. Mi ci sdraio sopra, osservo il soffitto bianco con gli stucchi perimetrali e il ventilatore centrale. Appoggio i cuscini al muro, mi metto seduta e mi ricordo di quando, in questa posizione, prima di addormentarti, leggevi il giornale. E stupita vedo cosa vedevi, se alzavi lo sguardo dalle pagine del quotidiano. Davanti ai miei occhi c’è un grande quadro, che non avevo mai notato: avevi dipinto noi quattro bambini, che giocavamo con la sabbia e con l’acqua, sulla spiaggia di Kovalam. Il tuo tratto era morbido e deciso, usavi colori elementari declinati in infinite sfumature. E’ tutta azzurra e nera, questa tela. Azzurra come è l’Oceano indiano e nera come siamo noi, oppurre azzurra e nera come la bandiera dell’Inter, la tua squadra del cuore. Forse non eri un artista ma poco importa, la pittura era il tuo hobby e non il tuo lavoro, non inseguivi la celebrità ma il piacere. Forse non eri un artista, ma eri sicuramente un tifoso. Ogni domenica andavi allo stadio armato di tromba, sciarpa e cappellino. Mentre noi figli urlavamo “Forza Milan! Forza Milan!”, e tu ci sorridevi comprensivo: bisogna uccidere il padre per diventare adulti, meglio ucciderlo massacrando la sua squadra del cuore che massacrando lui. La tua squadra del cuore, tra l’altro, già si massacrava da sola. Quindi eravamo facilitati. Però non ce lo aspettavamo questo contropiede, non ci aspettavamo che saresti morto di tuo.
Un infarto, che mossa scorretta e inaspettata. Da cartellino rosso, direi. Non sei più in squadra, ora. E senza il capitano è difficile continuare la partita. Soprattutto sei i ricordi intasano il presente bloccando il futuro. Fermando tutto al qui e ora. Qui dove sei stato, ora che non ci sei. Vorrei che non ci fosse più nulla in questa casa, che sparissero gli arredi e gli oggetti, che venissero levigati i pavimenti e imbiancate le pareti in modo che non rimanga alcuna traccia di quello che è stato. Che eri. In modo che io non ∗abbia più un paesaggio in cui cercarti. Forse finalmente verrei a piangerti sulla tomba. Ho gli occhi secchi da quando non ci sei. Non ho versato neanche una lacrima, che possa aiutarmi a lavarti via. Eppure ti devo cercare, e proprio in questa casa. Devo frugare in mezzo alla tua roba per trovare i documenti di cui mi hai parlato. Io ti avevo detto che li volevo e tu me li hai portati. Sono venuti con te in viaggio da Trivandrum a Milano. Poi io non te li ho mai chiesti e tu non me li hai mai dati. Forse ti sei offeso. Lì c’era il tuo passato: a parole ti ho detto che mi interessava ma nei fatti lo ho ignorato. Sto cercando di recuperare, di farmi perdonare. In extremis. Ho ribaltato il tuo studio, e finalmente li ho trovati: erano in una cartelletta su cui era scritto a stampatello il mio nome. Sono fotocopie già ingiallite dal tempo, e sono scritte in inglese e in malayalam. E’ colpa mia se non so l’inglese. Mi avevi anche detto: “Studialo, è importante per il tuo lavoro”. E’ colpa tua se non so il malayalam. Ti avevo detto: “Insegnamelo, è importante per la mia vita”. Sono arrabbiata con me e con te, ora che avrò bisogno di un traduttore per leggere chi sei stato. Per sapere qual’era la tua storia, e riempire di significati la mia. Ho un problema di identità spezzata: non posso dire che sono mezza indiana se non conosco nulla di questa metà che mi appartiene. Se devo cercarla dentro a degli scritti, che non so decifrare. Ho stracciato tutto. Ho stracciato tutti i documenti che mi avevi portato, quelli che avevi infilato ordinatamente in una cartelletta su cui era scritto a stampatello il mio nome. Non voglio sapere di te, filtrando le notizie attraverso un traduttore. Voglio parlarti, seduti sul divano. Mentre mi abbracci. Voglio appoggiarmi senza cadere. Voglio capire come mai un maschio indiano amava cucinare, aveva divorziato, tifava per l’Inter e desiderava che la sua unica figlia non dipendesse da nessun uomo. Neanche da lui. Voglio la tradizione, quella che non mi è mai stata trasmessa, neanche con la musica o con la cucina. Bob Dylan e risotto alla milanese? Ma per favore, neanche fossi la figlia di un fricchettone brianzolo. Voglio il tuo passato, quello che hai cancellato, per ancorarmi al presente, in cui non ci sei. Voglio poter ascoltare una nenia induista mentre preparo un palak paneer. Voglio poter dire “Sono mezza indiana”, sentendo che un eco di verità risuona nelle mie parole. Guardo i documenti stracciati, abbasso tutte le tapparelle, chiudo la porta di casa e mi ritrovo nel giardino. Mi acceca e mi suda, questo sole che non ha avuto il buon gusto di andarsene, per rispettare la tua assenza e la mia presenza. Vorrei spostarlo con una mano, e far entrare le nuvole a tinteggiare di bianco, grigio e nero questo cielo di un azzuro osceno. Su cui si stagliano i colori delle piante, che tu curavi con lo stesso amore, sempre accogliente e mai intrusivo, che avevi per i tuoi figli. Gelsomini, azalee, rose, glicini, oleandri, bouganville e margherite. Vorrei strappare i fiori, e lasciare che le radici senz’acqua secchino i rami. Salgo sulla mia auto. Scappo. Non me la sento più di cercarti. Poi torno indietro, prendo una bomboletta spray dal baule e faccio un graffito sul tuo muro. E’ uno sfregio? Comunque è un mio dono. Ti ho lasciato qualcosa di mio. Arrotolo i dread in una coda e accendo il CD portatile: nelle orecchie i bassi del reggae si sintonizzano con il battito del mio cuore, cancellandolo. E adesso dove ti trovo?
*Il racconto “Documenti” ha vinto il Terzo premio del II Concorso letterario nazionale Lingua Madre nel 2007, con la seguente motivazione: “Un linguaggio secco, puntuale e preciso per raccontare una perdita incolmabile. Sul palcoscenico della vita si è perso per sempre il ruolo di figlia, ma anche la possibilità di conoscere a fondo le proprie radici. La perdita di un padre e contestualmente la perdita di una identità culturale, non più figlia e non ancora figlia di una terra che si vorrebbe sentire propria. Il senso di colpa nei confronti di una cultura che in qualche modo si è rinnegata e la sensazione di essere sempre estranea ad una cultura che si è adottata. Il racconto di un’anima divisa tra il desiderio di sapere e l’inconscio rifiuto di una realtà cui si appartiene ma che si vorrebbe in qualche modo annientare.Testimonianza del bisogno atavico di conoscere se stessi e il proprio DNA culturale per poter essere cittadino in una società che si dice multietnica ma che nasconde troppo spesso il malessere di chi non riesce ad esprimere la propria identità”. Il racconto è pubblicato nell’antologia Lingua Madre Duemilasette – Racconti di donne straniere in Italia” a cura di Daniela Finocchi, Edizioni Seb27.
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