“Vuoi partecipare all’iniziativa Adotta uno scrittore organizzata dal Salone del libro di Torino”?, mi avevano chiesto, mesi fa. Era il nome del progetto, inizialmente, ad avermi colpito. Sentire che qualcuno voleva adottarmi, in quanto scrittrice, mi riempiva di gratitudine, nei confronti di questo qualcuno. Che poi questo qualcuno fosse anche, secondo il mio giudizio, una delle massime istituzioni italiane in fatto di letteratura, mi inorgogliva pure. “Grazie, grazie, grazie!”, avevo risposto. “Mi adottano, mi adottano, mi adottano!”, avevo comunicato saltellando a mio figlio, anni 12, che era scoppiato a ridere senza chiedermi ulteriori spiegazioni, come se quello fosse uno dei miei incomprensibili raptus di entusiasmo che gli conveniva prendere così. Tanto poi mi sarebbe passata. E infatti, fino a quando non mi avevano ricontattata, per chiedermi in quali giorni sarei andata a Racconigi, in provincia di Cuneo, a incontrare la IV E dell’IIS Arimondi Eula , non ci avevo più pensato. Ora però ero sul treno: tra poco sarei arrivata al dunque. Sarei entrata in classe, e l’avrei visto in faccia: il plotone di esecuzione che mi avrebbe impallinata su quella sedia, stretta tra la lavagna e la scrivania. Loro, al mio ingresso, si erano alzati in piedi, dicendo “Buongiorno”. Ché mica stanno tutti accovacciati dietro a un nascondiglio, senza salutare, i cecchini. “Sparate, dai: un colpo secco, preferibilmente”, pensavo. Invece no. Mi ascoltavano, parlavano, sorridevano e ridevano, addirittura (che le ultime due cose solitamente sono quelle che più mi fanno stare bene, o che mi mettono meno a disagio). E questo dunque mi aiutava, soprattutto perché mi trovavo a dover parlare di me, di quando e di come avevo iniziato a scrivere, di quello che facevo e soprattutto del perché lo facevo (cosa a cui, spesso, non so dare giustificazioni nemmeno a me stessa). Argomenti che in generale mi viene sempre difficile trattare, soprattutto se penso che non è detto che agli altri possano interessare. Ho sentito amici chiedere un’altra birra o domandarmi “Andiamo al cinema?”, mentre ci provavo. Loro invece stavano lì, senza possibilità di distrazioni o di fuga, e sembravano pure interessati. E, a volte, divertiti e divertenti. Questo clima, tra la serietà e l’ironia, è un’alchimia difficile da raggiungere, in qualsiasi rapporto. Che io lo stessi vivendo, con degli estranei, assomigliava quasi a una magia. Avevo la sensazione, stranamente bucolica (per me che sono decisamente urbana), di gettare dei semi in un terreno capace di accoglierli. Un’area fertile: creata, a mio avviso, dalla professoressa di italiano, Luisa Perlo, che con loro aveva instaurato un rapporto non solo didattico ma anche profondamente umano. Mi ricordava, nei modi, la mia insegnante di storia e filosofia del liceo: Franca Ciccolo. Una donna che ci dava rigorosamente del lei, mettendo tra noi una distanza formale cancellata, nei fatti, dalla sua capacità di starci vicino, di comprenderci e di aiutarci. Trasformandosi in una guida, fondamentale per noi studenti-ragazzi spesso disorientati. Loro, invece, gli studenti-ragazzi che adesso mi trovavo di fronte a ruoli quasi invertiti, erano stati definiti molli e svogliati, mi avevano detto. A me, in quelle sei ore – divise in tre diverse giornate – in cui siamo stati insieme, sono sembrati esattamente il contrario. Pieni di vita, e di curiosità. Capaci anche di dirmi, e di spiegarmi, cosa non gli piaceva, di quello che avevo scritto. Che non è mica da tutti riuscirci. Che se uno fosse davvero molle e svogliato mica si metterebbe a criticarti: ti ignorerebbe, piuttosto. Guardare fuori dalla finestra, per esempio, è ancora un’ottima strategia. Alcuni di loro, invece, avevano addirittura sottolineato delle frasi dei miei libri, e mi avevano detto: “Questa è bellissima”. Cioè, avevano fatto con alcune mie parole, di un romanzo o di un racconto, quello che io da sempre faccio con alcune parole dei romanzi o dei racconti degli altri: tornare indietro, rileggere una frase e addirittura appuntarmela, per memorizzarla. Perché non voglio perderla, dato che mi ha suscitato pensieri ed emozioni, trasformandosi in una chiave forse in grado di aprire una porta. Che e’ quello che, come lettrice, spesso chiedo a un libro. C’è dunque anche la possibilità che io sia riuscita a dargli qualcosa, mentre loro sicuramente mi hanno dato molto. La loro energia, tra l’altro. Il mio “Grazie, grazie, grazie!” oggi va quindi anche a questi studenti-ragazzi. E alla professoressa che è riuscita a mettere le basi su cui è stato possibile creare un ponte, tra noi, fatto anche di parole scritte-lette-dette-ascoltate.
Gabriella Kuruvilla
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