La Libreria Borgo San Paolo aspetta quieta e accogliente l’inizio della presentazione.
Nell’attesa, mi perdo piacevolmente tra i suoi scaffali e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Passata una buona mezz’ora è chiaro che non entrerà più nessuno e si decide di dare inizio all’incontro, anche se in sala non siamo più di dieci.
L’argomento – non proprio tra i più leggeri – e la lieve pioggerellina non basteranno forse a giustificare chi ha scelto di restare a casa, ma i presenti, c’è da dire, sono tutti sinceramente interessati.
Un tavolo per le autrici, davanti poche sedie: una presentazione informale, dove ciò che conta davvero è quello che si è venuti a sentire.
E in effetti si intuisce che quello che oggi sentiremo sarà qualcosa di importante.
Il titolo del libro è “Veleno nelle gole“, tratto dall’omonima sceneggiatura con cui le due autrici, Simona Barba e Gisella Orsini, hanno vinto il RIFF (Rome Indipendent Film Fesival) nel 2016.
Il testo è una denuncia sociale: si racconta la storia vera di “B.”, un paese dell’Abruzzo per anni avvelenato dalle acque tossiche del fiume che lo attraversa (più o meno ironicamente la pagina wikipedia del paese sopra citato definisce questo fiume “uno dei più limpidi e puliti d’Italia”).
Agli inizi del novecento sorge vicino a B. un polo industriale che sfrutta il fiume per la sua produzione; nel 2007, quando ormai la fabbrica ha dismesso lo stabilimento, viene scoperta un’enorme discarica abusiva di rifiuti tossici, che inquina in modo irreparebile l’ambiente. Inoltre, é stata altissima incidenza di tumori tra i dipendenti della fabbrica a B.
Non solo quindi c’è stato un incalcolabile danno ambientale – ad oggi non ancora risanato – ma anche un terribile e gravissimo ‘danno umano’.
Il paese di B. non è mai nominato nel libro per intero, anche se non è difficile riconoscere in esso un luogo ben preciso. La scelta del nome si rivela però estremamente efficace perchè la storia di B. è anche la storia di tante realtà a B. fin troppo simili.
Il titolo “Veleno nelle gole” fa riferimento alle acque avvelenate che gli abitanti di B. hanno bevuto per anni, ma anche alla posizione geografica del paese, che è in una zona caratterizzata da gole.
Dopo questa breve introduzione Simona Barba e Gisella Orsini raccontano il modo in cui hanno scritto “Veleno nelle gole“: prima di tutto specificano che non si tratta di un’opera con uno stile simile a quello di un documentario, ma piuttosto di un romanzo di interessante lettura; poi descrivono la struttura ‘filmica’ del libro, che segue la scansione delle scene dell’originale lungometraggio e, come una telecamera, non fa emergere troppo la voce dell’autore, ma preferisce lasciare al lettore il compito di elaborare una riflessione personale a riguardo.
Viene ora il momento di dire qualcosa in più sula trama: il protagonista fittizio, Lorenzo, è uno dei pochi elementi che le autrici hanno inventato. Le descrizioni accurate dei particolari, come ad esempio la disposizione delle foto negli alloggi dei dipendenti, sono frutto di un attento percorso di documentazione.
E’ il 1972, Lorenzo è un giovane chimico, suo padre lavora nello stabilimento di B.; anche Lorenzo, sulle orme del padre, é riuscito a trovare lavoro in fabbrica, posto ambito da tutti i ragazzi del paese.
Infatti, lo stabilimento offre ai suoi dipendenti un lavoro piuttosto ben pagato, insieme ad un alloggio, a tutta una serie di servizi di cui la famiglia può usufruire (come un viaggio estivo in colonia per i figli) e garanzie in caso di malattia o infortunio.
Insomma, la fabbrica provvede alla vita dei lavoratori, la fabbrica pensa a tutto e gli abitanti di B. sentono verso la fabbrica un senso di appartenenza.
Lorenzo viene assunto come chimico, ma presto scopre qualcosa di inquietante.
Gradualmente il giovane – che le autrici ci tengono a definire “normale”, non un eroe – a causa di una serie di avvenimenti “si sveglia” e capisce che intorno alla fabbrica qualcosa non va.
Comincia allora ad indagare, desideroso di verità e giustizia, ma a fronteggiarlo sono in molti; i suoi ‘nemici’ non vengono soltanto da fuori: in prima linea c’è suo padre, paralizzato dalla paura di perdere il lavoro e di mettersi contro i potenti.
Nessuno a B. sa o sembra sapere.
E poco importa se, stranamente, in ogni famiglia legata allo stabilimento c’è almeno un malato di tumore, perchè “la fabbrica ci ha dato il lavoro” e pur di mantenerlo gli abitanti di B. sono disposti a sacrificare la loro stessa salute, la loro stessa vita.
Possiamo dire con certezza che, ai tempi di Lorenzo, la gente del posto sapeva e che la discarica era una realtà ben nota, ancora oggi presente nella memoria comune.
Una memoria sotterrata nel tempo, ma mai completamente smaltita.
Una memoria velenosa, che inquina le acque e diffonde la malattia.
Una memoria scomoda.
“Occorre non spaventare chi non sa“, recita uno stralcio di documento ritrovato nell’ufficio di uno dei vertici della fabbrica durante le indagini condotte sul caso.
E noi rispondiamo: occorre spaventare chi non sa, perchè proprio tramite la paura chi non sa – o peggio, chi finge di non sapere – si risvegli dall’omertoso torpore, apra gli occhi ormai disabituati alla luce, si scuota di dosso la sonnolenza e, guardandosi intorno, indietro e avanti dica: “non si può più tacere”.
La scrittura – dicono Simona Barba e Gisella Orsini – è per noi una forma di resistenza.
Personalmente, vorrei augurarmi che anche la lettura diventasse per noi una forma di resistenza.
Perchè sapere le cose è il primo passo per poterle cambiare.
Bianca Ceragioli
Liceo Classico Vincenzo Gioberti
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