In principio era il telefono
Prima c’è stata questa telefonata in cui mi si diceva di essere stato adottato. Poi una decina di minuti di interrogativi. Miei, naturalmente. E ora? (Mi dicevo). No, dico. E ora? Che gli racconto, ai ragazzi che mi hanno adottato? La parola che ho in mente è grazie. Che è un po’ il grado zero e assoluto delle parole quando ancora le stiamo cercando; e però, mi dico, è anche il riscatto ultimo dei significati quando li abbiamo trovati. O almeno così ci sembra.
Chivasso on Time
A Chivasso ci sono stato anni fa. Parecchi anni fa. Nel ricordo, si perdono le ragioni del mio intervento di allora (la storia di Orfeo e Euridice nei secoli: un mito che mi affascina da sempre – da sempre – confermandosi negli anni un’ossessione discreta e continua contemporaneamente); ma quello che mi resta chiaro nella memoria, traghettato fino a qui da tutta una serie di impressioni del presente. È che nel viaggio in treno di andata Roma Termini-Chivasso ho abbozzato sul vecchio pc di allora una serie di scene di quello che poi, scritto insieme alla mia sorella extra-anagrafica Francesca Serafini, sarebbe stato Principe libero, il film su Fabrizio De André con Luca Marinelli che, ora mentre arrivo per la prima volta a Chivasso da Genova, a distanza di anni da allora, è nel pieno delle riprese. È un lunedì la prima volta che vedo le ragazze e i ragazzi della II B del Liceo Isaac Newton.
Mi accoglie Simonetta, la professoressa che, insieme a loro, mi ha voluto adottare. Con me anche Fabio Ferrero, il regista che si occuperà delle riprese di questo primo incontro. Ho lasciato Fabrizio De André alle prese con la Genova degli anni Cinquanta. Il tempo si muove tra una piega e l’altra della sua stessa consistenza leggera; e io mi lascio cullare da questa tenerezza intronata che dà aria a certe stanze dimenticate del cuore, ora che rientro al Liceo dopo anni di scapigliatura scellerata.
Loro
La prima impressione – non so per voi: ma per me, come dico sempre per spiegarmi, la prima impressione è sempre quella che conta: ‘sì. Sono realmente così’ – è quella di una totale, ospitale Bellezza. I ragazzi― alle volte non sopporto questi plurali che m’impongono un’imprecisione generica: costringendomi alle rettifiche pesanti delle ragazze e dei ragazzi. Sicché scriviamo Loro, da qui in poi: naturalmente ognuna e ognuno di Loro distintamente.
Un po’ perché è giusto che Loro segni una sorta di piccola siepe rispettosa tra i loro quindici anni favolosi e miei vecchissimi quarantacinque. (Tre vite loro, almeno quantitativamente, per i miei chilometri: ricordate Indiana Jones? «Non sono gli anni, sono i chilometri». Appunto).
Un po’ perché ora che mi siedo – Simonetta sempre radiosamente complice nel farmi sentire a casa – e Fabio prepara le riprese, quello che mi avvolge e mi incanta sono i loro occhi, tutt’insieme, che cercano in qualche modo di catalogarmi tra le loro esperienze quotidiane.
E mi sento improvvisamente troppo brizzolato, troppo barbuto per tutto il futuro che loro mi raccontano solo guardàndomi. Con tutto il tempo a disposizione di chi non ha bisogno di considerarlo, il tempo. Perché è già tutt’uno con il presente che stanno vivendo: con la grazia lieve dei giorni che càpitano, quando arrivano direttamente dal futuro per accompagnarti ora per ora.
Lo Zio scemo
«Io sono un figlio unico che da sempre cerca fratelli e sorelle intorno per condividere la solitudine» è più o meno quello che dico. Per spiegare quanto sia felice di essere stato adottato. Da sùbito – il che la dice lunga sulla mia condizione psicologica più gelosa e segreta – mi piace moltissimo l’idea di essere considerato il vecchio zio un po’ scemo, il buffo di famiglia che arriva a casa durante le feste comandate e si copre di meraviglia, e di ridicolo, in cerca di affetto.
E però quello che mi sembra da sùbito giusto – mentre gesticolando mi lascio ammaliare dalla presenza incongrua di un citofono alle mie spalle, laddove di solito nelle aule c’è un crocifisso o la foto del presidente della Repubblica – è chiedere a loro di descriversi attraverso gli aggettivi.
Una storia d’amore per aggettivi
Chiunque scriva vi dirà sempre, con onestà, che gli aggettivi sono le parole più difficili, e insidiose, in assoluto. Ma è solo perché è a aggettivi che il mondo si disvela; e le persone si mostrano nella loro umanità più fragile, e indifesa. Ché poi le persone, del mondo, sono precisamente il mondo come lo conosciamo.
E insomma qui: in questa combinazione nome proprio più aggettivo corrispondente e liberamente scelto comincia la nostra storia d’amore (le parole ci sono, appunto, usiàmole: almeno per quanto mi riguarda). Una storia d’amore che prevede un quarantacinquenne che ha il suo imprinting più smanioso e digressivo e una classe di quindicenni che lo strega, definitivamente, sotto lo sguardo divertito di una ben più consapevole professoressa di Lettere; e quello, implacabile e sintatticamente disgiuntivo, di una macchina da presa su cavalletto che ritrae, di quel quarantacinquenne affatturato là, tutti i goffissimi movimenti delle mani, le riprese ingolfate di divagazioni sul cinema o sulla letteratura, tutti i tentativi di dialogo con persone nate – ogni volta un sussulto nevoso, più che nervoso, della valvola mitrale – già nel ventunesimo secolo.
Quando ci lasciamo li avverto della rischiosa mancanza di programmazione, da parte da loro, nel pensare che gli incontri tra noi possano essere davvero, nel tempo, soltanto i tre previsti più l’adunanza del Salone.
Le Alpi a forma di Piramide, Manzanarre escluso
In macchina, con Fabio, percorriamo a ritroso la provinciale sfilando tra le Alpi e le pianure che le fronteggiano, vaporose, lontanissime come l’adolescenza che mi sono trovato addosso trent’anni fa; e però presenti, e vive, insieme con i fantasmi innevati delle montagne: quasi tutto il futuro respirato in aula con Loro volesse cucirmi addosso un paesaggio nuovo che mi detta il tempo. Penso a Chivasso come l’ho incontrata la prima volta; alla gravità, a Isaac Newton. Non esiste la gravità, ne sono convinto da sempre. Solo: non sono in grado di dimostrarlo. Posso solo indicare la mancanza di peso che mi toglie il respiro, quando càpita.
La Bella e la Bestia qui per voi
La seconda volta che ci rivediamo – dopo un mese di girellamenti miei per l’Italia e un contatto epistolare peristaltico – mi accompagna in classe Anna, un’ex allieva di Simonetta che con Loro sta facendo un corso di tecniche di scrittura. Appena li rivedo, e li ritrovo – non conta neppure la scelta del loro per indicare tutti i visi distintamente: la morfologia è una trappola gentile e costante – mi accorgo di cosa voglia dire realmente sembra che il tempo non sia passato. Con declinazioni impreviste, in realtà, di questa stessa rivelazione. Perché il tempo non sembra passato per me: ma invece a questa loro età gran parte di marzo e di aprile sono un’eternità primaverile fatta di compiti in classe, innamoramenti, letture casuali, appuntamenti con il cuore in modalità techno, interrogazioni a sorpresa, partite di calcetto, nuovi poster a sostituire quelli vecchi, litigate furibonde con i migliori amici, canzoni nuove trovate su youtube, un’infinità di minuti volati via senzapensarci, vista la scorta infinita di ore in attesa. Un elenco di piccole, infinite eternità quotidiane che è poi anche il mio, in realtà; con la differenza sottile, e consapevole, di una scansione diversa: quando non è più l’estate in arrivo a segnare i tempi del tempo, e i ti con zero che ci si azzuffano intorno sono sempre più preziosi e pesanti. Per sempre privi di quel privilegio quindicenne che è lo spreco, insensato, dei giorni; lo spèrpero, lo scintillìo prodigo di chi è, il tempo, in un modo che nemmeno il più accorto dei santagostini potrebbe comprendere, proprio nel momento in cui se lo domanda.
L’adolescenza è come il jazz. Se ti chiedi cos’è, sono già passati trent’anni da quando ti è finita.
In questo aprile meno crudele che mai, cerco di assistere Anna nel racconto minuzioso della favola della Bella e la Bestia. Il mio còmpito di guastatore è quello di confermare e divagare, con tutti Loro, le storie che da una storia si dipànano, ventose, portandosi via dal tracciato iniziale e riscrivendo storie nuove a partire da un’orma iniziale.
Il futuro sono storie
E così, senza quasi rendercene conto, aiutati dalla pazienza silenziosa di due ospiti esterni – amici di Anna che vengono usati come personaggi – con Loro si comincia a inventare storie. Progetti di romanzi futuri; le vie intrecciate e sostituibili di un soggetto per un film da girare tra quindici anni. Le storie, nella loro immaginazione – i neuroni divertiti della fantasia che saltellano da una parte all’altra dell’aula senza neppure il tempo di capire quale ballo stanno improvvisando – diventano immediatamente vere: e visibili. Non si fa in tempo a intrappolare uno schema alla lavagna che gli schemi sono già saltati. E però: tra le infinite, plausibili storie che si affacciano: qualcosa si struttura da sé appena Loro cominciano a rendersi conto di quali siano le domande giuste. Le scelte da fare perché le storie si trasformino nella storia che stanno cercando.
L’intelligenza è la capacità di comprendere il mondo nel momento in cui il mondo, invece, si manifesta in tutta la sua mutevole, meravigliosa incapacità reale di comprenderlo.
Ecco cosa vedo girellare nell’aria conclusa dell’aula. E mi verrebbe da ridere, rumorosamente, sguaiatamente: la risata convulsa e spugnosa di un Porthos in frenesìa postprandiale. Ma mi trattengo: mi sento già abbastanza ZioMatto: implodo di risate e mi specchio nelle parole accavallate di tutte e tutti Loro mentre parlano e si raccontano. Mi sembra di essere presente a una delle prime albe del mondo: tutti che escono dalla grotta dove li ha imprigionati per ore e ore di notte la paura del buio, il ricordo delle ore di veglia passate a raccontarsi storie per tenere a bada il terrore, e contenerlo, ingabbiare i mostri a parole e condividere la solitudine. Uno sguardo a Simonetta; e l’idea che di queste albe lei ne abbia viste (e ne veda) a centinaia, tutte le mattine che Chivasso si regàla.
L’Ecclesiaste, qualche volta
Il secondo abbandono è un arrivederci ritardato; ché ci si vedrà, appunto, di lì a una decina di giorni. Il tempo per una finesettimana lunghissima – calcoli di sabati fusi con ponti da primo maggio e incubi diffratti di compiti rimandati – e il mio ritorno a Torino per il concerto di Patti Smith.
Quando esco dal Liceo rivedo all’improvviso una fine di aprile di tanti anni fa. Allora soffrivo per amore e mi ingegnavo di capire cosa mettere di duraturo, in quello che scrivevo. Mi vedo per un paio di secondi riflesso in una delle finestre al pianterreno. Allora è un avverbio dubbio. Che indica tanto il tempo ch’è stato quanto il farsi forza per riprendere fiato.
È da trent’anni che mi ritrovo negl’interstizi porosi tra un allora e un altro.
Ecco. Ovvero: «Stiamo zitti un momento, Albert, ascoltiàmo…»
Ecco. A guardarli da qui, i due incontri – uno a Chivasso, uno a Torino, al Salone – con Loro e con Simonetta, la IIB del Liceo Isaac Newton: a guardarli da qui i due incontri ci sono già stati. Ho potuto ribadire il mio orgoglio nell’essere stato adottato da una classe che mi apparenta, anche, alla Lisa dagli occhi blu della canzone omonima. Sono stato per altre due volte folgorato, e incantato, dal vedere con esattezza quello che Fabrizio De André spiegava a tutti noi dal palco dei suoi concerti meravigliosi. Se anche non capiamo del tutto i valori delle nuove generazioni, è solo perché siamo pieni del pregiudizio dei nostri, di valori. Per quello che significano.
In uno dei due incontri, l’ultimo a Chivasso (per ora, almeno) sono stato rischiarato da uno degli istanti più belli della mia vita adulta. Quando l’occasione di un còmpito a casa sui generis (ho chiesto a tutti Loro, se volevano, di raccontarmi il futuro che si vedevano dentro da qui a quindici anni) è diventata una delle più struggenti, e luminose, dichiarazioni d’amore cui abbia mai partecipato da ascoltatore. Quando D. ha letto «spero di essere alto circa 15 cm in più di come sono adesso, spero di essere sposato/fidanzato con una ragazza con i capelli lunghi, castani, dolce e simpatica di nome I.», quando tutta la classe ha sorriso e riso – ma con la grazia della partecipazione, solo questo: l’incantamento coraggioso della verità quando esplode improvvisa – voltandosi verso I.; quando D. ha continuato «Oggi stiamo passeggiando per Tokyo, mano nella mano, per il nostro anniversario», io, senza nessun dubbio, mi sono trovato in uno di quei momenti della mia vita che considero una delle risposte più incandescenti, e stellari, all’interrogativo abissale di Camus.
Perché Loro
Ecco. Sono stato adottato ora e per sempre. È questo che ci siamo detti con Loro salutandoci. E solo io – cultore entusiasta del divanismo fin dall’adolescenza: ovvero, l’arte di ‘piazzarmi sui divani degli amici a tempo indeterminato invadendogli casa (a tempo indeterminato)’ – posso capire quanto incauta, e sprovveduta, sia stata la loro promessa per il futuro.
Ma li lascio nella momentanea ignoranza di quello che li aspetta. Dopotutto, ne hanno così tanto di futuro, tutti Loro, che potranno permettersi di sprecarne un po’ con questo vecchio Zio Matto che li guarda da qui e sorride.
Senza rendersi conto del fatto che ha ripetuto le stesse cose tre volte e non se n’è accorto.
Ma senza danni.
Perché Loro l’hanno ascoltato senza farglielo notare.
Giordano Meacci
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