Quando arrivo a Collegno mi guardo intorno con curiosità per quest’angolo di mondo a me tanto sconosciuto. Ci sarei mai venuta senza questa occasione? L’arrivo a scuola è una festa, sento che ci sono curiosità e attesa, ricambiate: è la prima volte che adottiamo uno scrittore, mi è stato detto, ed è la prima volta che vengo adottata, rispondo io. Nessuna delle parti in causa sa cosa accadrà, è un gioco che dobbiamo inventarci. Non c’è chi impara e chi insegna: io imparerò a essere la scrittrice adottata da una classe di scuola media e loro impareranno a essere le mie balie. Loro impareranno ad avere cura delle mie risposte e io delle loro domande, e viceversa.
Visto che parliamo di libri, iniziamo subito dalla carta d’identità del libro, che cos’è un esergo, che cosa una dedica, dove si mettono i ringraziamenti (e perché io sono restia a farli), cos’è un colophon e dove possiamo trovare la data di pubblicazione, che ci può dire qualcosa sul contesto in cui il libro è stato pubblicato (ma non necessariamente è stato scritto).
Questo espediente si rivela un bel viatico.
Ora che del libro conosciamo l’estetica, il viso, possiamo affrontarne gli organi interni, tanto vari quanto varia è la declinazione che il termine stesso, “libro”, può assumere: perché non sono la stessa cosa un manuale di ginnastica e un romanzo dell’ottocento, né una raccolta di racconti americana e un albo illustrato.
E qui cominciano le domande, tante.
La mattinata passa in fretta, loro imparano e io pure: per esempio a usare la LIM.
E il premio per essermi svelata, messa a nudo, è il più bello che si possa immaginare: vengo scortata in lungo e largo per la scuola a vedere i murales.
Più tardi, in treno, mi addormento e sogno che non ci siamo più io e loro, ma ci sono io dietro quei banchi, e non capisco, davvero non capisco, se è dormiveglia oppure realtà.
Nadia Terranova
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