Cara Helena,

mi ricordo di quando fare una fotografia era una fatica. Il mio caschetto castano, liscissimo, e i ricci biondi di mio fratello cuocevano fino a scottare sotto il sole a picco sulla piazza vuota, la cattedrale alle nostre spalle. Dopo poco ci sembrava di sentire una goccia di sudore colare tra i capelli, ma non alzavamo la mano per grattarci. I nostri sorrisi si tiravano sempre di più, diventavano smorfie contratte e nervose che alla fine rovinavano comunque la fotografia, ma mio papà ci teneva che stessimo in posa: “sto mettendo a fuoco” ci gridava, a dieci metri da noi. “Aspettate che sistemo gli Asa. Sorridi Virgi, non fare la stupidina”. Quando, di ritorno dalle vacanze, invitavamo gli amici a vedere le diapositive, io ero elettrica, provavo brividi di piacere a stare lì al buio, davanti al grande telo bianco, l’aria ancora calda di settembre che entrava dalle finestre. Nel cambio da un carrello all’altro, io e mio fratello facevamo le ombre cinesi, oppure giocavamo a fare i presentatori nel fascio di luce gialla, come su un palco. Poi iniziava un’altra serie di diapositive, e i miei discutevano su dov’era quel porto o quella cascata e si imputavano a vicenda le sfocature: “stai perdendo colpi”, si dicevano.  Da qualche anno si usa mettere le proprie fotografie da piccoli sui profili dei social e io ho scoperto che gli altri hanno molte più foto in cui fanno gli stupidi, mettendo le due dita a segno di vittoria, facendo occhiolini, linguacce, mandando baci.

Ci hai raccontato in classe che l’editore ha potuto mettere poche foto nel libro: l’agenzia Magnum se le fa pagare a caro prezzo, ostinata e altera retrovia di un mondo in cui le fotografie erano, semplicemente, di meno.  I soggetti delle foto che hai scelto sono tutti uomini e donne, in ritratti singoli, di coppia o di gruppo. Pochi gli oggetti: un fucile che sembra più un cane fedele, un lampione nella neve, come un elettrico, malinconico Benvolio. Ma sotto il dialogo degli sguardi, sotto lo schiamazzare allegro, nonostante la guerra, sulle Ramblas o tra le donne soldato, mi sembra di sentire ancora un’ultima, ironica voce. Faccio frusciare rapidamente le pagine del libro sotto le dita e cresce in me il sospetto: queste foto si parlano tra loro, planando sopra i capitoli centrali, si parlano nella lingua degli affetti, fatta di sorrisi, ammiccamenti, dall’indicare qualcosa di passato che non c’è più, ma che è stato tutto finché c’era. Fingono di fare da sostegno, da appiglio alle storie di uomini che ci stai raccontando, ma in verità sono concentrate, comprese nella loro storia di oggetti, una storia nata e vissuta nel buio, ricolmo di speranze e disperazione, della valigia messicana.

La storia di questa valigia fa capolino dalle ultime pagine del tuo romanzo e io cerco di dipanarne il filo aggrovigliato googlando le due parole chiave “valigia+messicana”. Trovo il documentario di Trisha Ziff, che già dai titoli di testa contiene alcune immagini della valigia, anche se io non lo capisco subito: i coni scuri suddivisi con ordine nel reticolato di cartone della valigia mi sembrano dei cannoni schierati, pronti a colpire. Nell’insieme il documentario non mi piace molto, sembra girato e montato sul copione più retrivo di questo genere di prodotti ma, tra tante interviste più o meno retoriche, ci sono anche alcune osservazioni che mi restano incollate: se è vero, come dice uno degli intervistati, che aprire la valigia fu come aprire la tomba di un antico re, è anche vero che, come dice qualcun altro, di storie come questa, di sparizioni e ritrovamenti, la storia dell’arte in generale, e quella della fotografia in particolare, sono piene. È di pochi anni fa, ad esempio, la scoperta dei negativi di Vivian Maier, la fotografa che fece per tutta la vita la bambinaia a Chicago e che stampò una minima parte delle proprie fotografie, lasciando il resto della sua opera, centinaia di rullini, in scatole che conobbero varie collocazioni e spostamenti. Le ragioni per cui amiamo storie come queste sono molteplici: un innato gusto per la trama, il senso di giustizia evocato dal riscatto, seppur postumo, la speranza che regalano a tutti noi absolute beginners, lo spettacolo di una bellezza che sgorga inarrestabile dal buio.  

Attorno a un tavolo con tante persone capita, per piccoli spostamenti, scambi di posto, di ritrovarsi finalmente vicino alla persona con cui si voleva parlare da tutta la sera. Qualche mese fa sono uscita a bere una birra con degli amici, ed è venuta con noi anche l’ex fidanzata di un nostro amico, che dopo la rottura non vediamo più spesso ma a cui vogliamo ancora tutti molto bene. Si chiama Virginia come me e durante queste uscite ridiamo sempre quando ci chiamano e ci voltiamo entrambe, perché col nostro nome non capita molto spesso. Virginia fa fotografie e studia alla Accademia Albertina: appena ci troviamo vicine iniziamo a parlare di mostre, di film, di libri che stiamo leggendo. La prossima settimana si laurea e le chiedo su cosa ha fatto la tesi: “Francesca Woodman, mi dice, la conosci?” No, io non la conosco, non so chi sia questa fotografa dal nome spezzato su due lingue. “Ti piacerebbe tantissimo, io l’ho fatta in particolare su Blueprint for a Temple, uno degli ultimi lavori che ha fatto. Ti invio la tesi!” A forza di rimandare, finisco per leggere la sua tesi dopo il primo degli incontri con te, Helena, e scopro la storia, in realtà famosa, di una fotografa morta suicida a 22 anni, che nella sua breve vita studiò a fondo il rapporto dei corpi femminili con l’ambiente residuale circostante: nei suoi ritratti e autoritratti il corpo della donna è un frammento tra frammenti, e ritagli di schiena, di collo, di gambe, si fondono con strappi di carta da parati, foglie secche, mobili dissolti nella luce abbagliante del sole, senza alcuna degradazione reciproca, ma in uno stato di parità e fusione surrealista. In Blueprint for a Temple, leggo, la Woodman crea un collage di fotografie che nel suo insieme raffigura una sorta di tempio greco, con colonne, architrave, cariatidi: queste ultime sono i corpi delle sue modelle avvolti in un peplo che simula i solchi delle colonne, mentre i fregi e gli altri elementi architettonici sono stati fotografati nei bagni di appartamenti disabitati dell’Est Village. Ma la vera scoperta, di cui sono veramente grata alla mia omonima amica, è questa: Francesca Woodman decise di stampare il suo lavoro su carta diazotipica, attraverso un processo che fa sì che, se esposte alla luce e all’umidità, queste foto tendano a decolorarsi fino a sparire. Queste foto che non si possono vedere, se non al prezzo della loro fine, sono una grande operazione sulla fisicità della fotografia, sul suo carattere organico, effimero, vivo.

Le fotografie racchiuse nella potenzialità assoluta dei negativi di Maier. La lunga, avventurosa peregrinazione dei rullini della valigia messicana. La cognizione della morte nel collage bluastro di Woodman. Giro per giorni attorno a queste storie, cercando di coglierle finalmente per intere, e nei loro fragili ma irresistibili contatti. Per un po’ penso a Benjamin,  alla metafora che utilizza per spiegare la perdita dell’aura: una cattedrale che abbandona la propria ubicazione. Forse queste fotografie, nel loro tortuoso percorso, si muovono nel senso inverso, e più si perdono, e più vivono nel mondo, più riacquistano il proprio hic et nunc, ritornano eventi unici, dalla durata materiale definita, esistenze irripetibili, finalmente autentiche. Forse con esse la questione della stampa autentica ha nuovamente senso.

Del resto, chiunque abbia mai bruciato un rullino ti potrà dire con fermezza che le fotografie non sono solo dei piccoli quadri colorati su uno schermo. Due estati fa, nella fregola di portare il rullino delle vacanze a sviluppare, ho aperto male la macchina e l’ho bruciato tutto, irreparabilmente. Ho tenuto a lungo quella pellicola scura sulla scrivania, come monito, e ogni volta che la vedevo mi assaliva una rabbia furente verso me stessa, mi insultavo e mi mangiavo le mani. Speravo che alla fine si sarebbe trasformata in un perplesso serpente conservato sott’alcol, ma la sua potenza di oggetto non si estingueva mai. Alla fine, sconfitta, l’ho buttato.

Ma da qualche parte una perdita, innegabilmente, resta: c’è una foto di Gerda Taro che ritrae un ragazzo morto, buttato scomposto a faccia in giù sull’erba, il suo viso nascosto e schiacciato. Guardo queste foto cercando di provare qualcosa, ma non ci riesco: lo scorso anno sui giornali c’era la foto di un bambino, piccolo migrante, morto su una spiaggia del sud Italia, quasi nella stessa posizione del ragazzino spagnolo. Nell’epoca della visibilità totale (e della falsificazione onnivora) il contenuto scioccante di queste foto sta sbiadendo, come il colore delle fotografie esposte troppo a lungo al sole. E adesso che la loro efficacia che pareva inossidabile si sta arrugginendo, adesso forse dovremmo tornare a guardare l’oggetto dietro il contenuto, la sua dimensione biografica, ovvero la sua storia ribelle, fatta di mancanze, di inevitabile finitezza. Sono gli errori dell’oggetto, il suo errare, che ci riporteranno forse qualche verità: come il pentimento del pittore in un quadro, un errore di copia in una tradizione manoscritta. É la verità che c’è quando la foto è ancora, o di nuovo,  assente, che ci permette di attivare la tridimensionalità dell’immaginazione, colmando la pochezza dei sensi. Come scrivi tu, alla fine della Ragazza con la Leica,  le foto-ricordo, e i ricordi stessi servono a dimenticare:  per poi immaginare meglio, conoscere più a fondo e criticamente, non affidandosi ciecamente a quel che si vede, ma scavando, cercando, costruendo. Muovendosi via dal ricordo puntuale e patetico, fuori dal teatro del tempo di cui parla Barthes, vero un ricordo discorsivo, che serva a capire.

Da qualche anno vado da un fotografo in corso Svizzera. Già dalla prima volta mi aveva preso sotto la sua ala, un po’ dispotica, un po’ protettrice. Conosce decine di barzellette e sa fare quei giochi di magia con le monetine. L’ultima volta che ci sono andata invece mi ha chiesto di chiudere gli occhi. “Aprili”. Sotto il mio naso c’è una banconota da cinquanta euro. “Vera o finta?” mi fa. Vera, gli dico, sapendo che è la risposta che lo farà più felice. “E invece no, è finta, a me l’hanno rifilata!”. Ridiamo insieme, davanti al fotografo incastrato da un’arte così simile alla sua. Ma intanto penso e non afferro quest’arte da illusionista, che gioca, come in un trucco, su quello che si vede ma non c’è e su ciò che c’è ma non si vede.

Virginia Speranza