Penso spesso, quando mi capita di ritornarvi, che le Università siano macchine del tempo per viaggiare negli anni Settanta. Gli studenti, i corpi eternamente giovani, le scritte sui muri, il desiderio  – mai sopito, mai cessato, se ci guardiamo dentro, ognuno di noi – di cambiare il mondo. Un’epoca terribile e felice, che coincide con la mia infanzia e quindi con la terra del ricordo, l’unica cui non si può fare ritorno, mai.

E le scuole? anche le scuole, gli istituti superiori intendo, sono macchine del tempo. Solo che in questo caso, puntano dritti agli anni Ottanta. Alla mia adolescenza, fino a quel giugno del 1988 in cui, con in tasca la maturità classica, ne sono uscita per non farvi, anche stavolta, più ritorno.

Il che è vero, ma non è del tutto vero. Anche se non ho mai insegnato a scuola – perché non ho mai smesso di credere, come si diceva una volta, che sia uno di quei mestieri, come il medico o il sacerdote, per cui ci vuole la vocazione, e non sentendola in me, non ci ho mai neppure provato – il mestiere di scrivere di tanto in tanto mi ha portato ad attraversare la soglia di una classe, di classi di ogni tipo, in tanti punti, negli anni, sulla mappa dell’Italia.

Qualche anno fa, ho persino rimesso piede nella mia scuola, il Liceo Ginnasio Giulio Cesare a Roma, per tenere una lezione di scrittura a quattordicenni che mi apparivano, più di ogni altra cosa, spaventati. Come sempre in questi casi, mi ha sorpreso la memoria dei luoghi, la mia, inesistente. Ricordo voci, volti, fantasmi soprattutto. Pochissimo le cose reali. Forse per questo scrivo romanzi, poesia (ricordate sempre: la poesia).

Anche i romanzi sono macchine del tempo. Soprattutto se fantastici, ma in realtà non c’è n’è bisogno: sono macchine con cui viaggiamo nel futuro, nel passato o in un diverso presente. Quando ho accettato l’invito del Salone di Torino a partecipare al progetto Adotta uno scrittore, presso il Liceo Scientifico Piero Gobetti di Torino, avevo un po’ questo in mente, e un po’ il tema del Salone di quest’anno: Un giorno, tutto questo. Quel giorno è nel futuro.

(Ci sono dei versi di Iosif Brodskij sul futuro, da Vertumno, che tornano da tanto tempo fa (traduzione di Serena Vitale, da Poesie italiane, Adelphi 1996):

“XIII

D’inverno il globo si appiattisce mentalmente.  Le latitudini, specialmente al crepuscolo, si accavallano.
Le Alpi non le ostacolano.  Odore di glaciazione. 
Odore, aggiungerei, di neo e paleolitico.
Più alla buona: di futuro.  Giacché la glaciazione
è una categoria del futuro che a sua volta è il tempo 
in cui non ami più nessuno, 
neanche te stesso.  In cui ti vesti senza preoccuparti 
che potrai spogliarti di colpo nella stanza 
di chissà chi, e in cui non puoi 
uscire di casa con la sola camicia azzurra addosso, 
e tanto meno nudo.  Da te ho imparato molto, 
ma non questo.  In un certo senso non c’è nessuno 
nel futuro; in un certo senso 
nessuno ci è caro nel futuro.
Là, certo, stalattiti e morene balenano ovunque 
come louvres e grattacieli dai contorni incerti.
Certo, qualcuno lì si muove: mammut 
o scarabei mutanti di alluminio, alcuni con gli sci. 
Ma tu eri il dio dei subtropici, con diritto di controllo sul bosco misto e sulla zona del cernoziom: su questa patria del passato. 
Nel futuro il passato non esiste e là
tu non hai nulla da fare.  D’inverno avanza ammantando 
i contrafforti delle Alpi, i dolci Appennini,
afferrando ora una radura con il fiore, ora soltanto
qualcosa di sempreverde: una magnolia, un ramo di alloro
e non solo d’inverno.  Il futuro 
comincia sempre quando qualcuno muore.
In specie un uomo.  Se un dio, a ragione maggiore. “

Il futuro, così difficile, sembra, da pensare oggi: il tempo in cui nessuno ci è (ancora) caro, perché quelli che ci saranno cari forse non sono ancora nati, e la letteratura come strumento per raggiungerlo.

Con questo in mente, entro in classe. I ragazzi del Gobetti hanno sedici anni, frequentano un indirizzo di Scienze applicate, sul futuro avranno forse più immaginazione di altri? Trascorriamo il primo incontro, insieme alla prof.ssa Laura Garau, che ringrazio, a dire qualcosa di noi, a conoscerci. Con noi ci sono anche Augusta Giovannoli del Salone del Libro di Torino, e il regista Fabio Ferrero, che tra una videopillola e l’altra si unisce alla conversazione, prende anche lui la parola. Ringrazio anche loro.

Cominciamo da Sirene, il mio primo romanzo, il romanzo d’esordio, che da poco è tornato in libreria per Marsilio, a dieci anni dall’iniziale uscita con Einaudi. Un incontro che serve a raccontare ma soprattutto a far raccontare, magari inconsapevolmente, fantasie, immaginazioni, desideri, assenze. I ragazzi giocano in levare, non tirano (ancora) fuori tutte le loro carte, ma sono capaci di scatti inaspettati, come quando, la mattina del secondo giorno, a cortese richiesta recitano, tra baldanza e imbarazzo, i sonetti petrarcheschi che la prof.ssa Garau li ha indotti a scrivere qualche lezione prima. Chi può il sonetto può tutto o quasi, ed è con questa convinzione che si lanciano in acqua nel prossimo esercizio: immaginare un futuro.

Ogni vero gioco è serio e così anche il nostro: devono immaginare – loro che si trovano già all’interno di una macchina del tempo, ma non lo sanno – di viaggiare nel futuro. Hanno poco tempo nel futuro, un’ora sola. (Quell’aria può essere tossica, se non sei abituato a respirarla?).

Devono dirci come ci sono arrivati, in quel tempo diverso, perché l’immaginazione che porta alla scrittura, a scrivere un giorno, magari, un romanzo, è concreta. Che cosa riporteranno via, da quell’ora sola nel futuro, quale sarà il dono, se dono sarà, che ne trarranno.  Caminante no hay camino, se hace camino al andar….

E, per ultimo ma forse più importante di tutti, che cosa lasceranno nel futuro, a cosa dovranno rinunciare – qualcosa di questo mondo, del loro personalissimo mondo, qualcosa di concreto e di valore – perché ogni futuro ha un prezzo. (Anche se forse, il solo modo per raggiungerlo è di non saperlo, di scoprirlo strada facendo?).

E ora stanno scrivendo, le nostre eroine – le tre sole ragazze della classe – e i nostri eroi, in attesa del giorno in cui ci rivedremo, il 7 maggio, nel futuro, e tutto questo, lo leggeremo gli uni agli altri.

Laura Pugno