Sul Nobel per la letteratura e le molestie sessuali.
Aspettando l’incontro “Dopo, durante e oltre il #Metoo” di Domenica 13 maggio alle 12 in Sala Rossa.
La bionda con le occhiaie e l’uomo con lo sguardo fisso hanno un fascino da nouvelle vague. Più veri dei protagonisti di Fino all’ultimo respiro, sono un fotografo marsigliese dal nome assonante con Jean-Paul Belmondo e una poetessa scandinava che ha frequentato la scena intellettuale di Parigi. Trent’anni dopo, quella coppia ha causato la sospensione del Nobel per la letteratura, fattore scatenante l’ondata del #metoo. Le denunce di molestie sessuali hanno avuto lo stesso effetto dell’ultima guerra mondiale, dopo la quale il premio è stato assegnato tutti gli anni. Lassù in Svezia dove sono moralisti di stampo protestante come negli USA e, per giunta, avvezzi a pensarsi il paradiso terrestre dell’emancipazione e dell’uguaglianza, non hanno per caso perso il senso delle proporzioni?
In realtà, chiunque abbia seguito la vicenda ha potuto rendersi conto che lo scandalo coinvolge un insieme di pratiche piuttosto gravi – dall’indebita gestione di fondi in capo all’Accademia di Svezia alle anticipazioni dei vincitori (anche qui entrano in gioco i soldi, visto che i premi Nobel sono materia di scommesse, nonché di corse ai diritti di pubblicazione) che hanno un comune denominatore nell’abuso di potere.
Il potere degli Accademici è irrevocabile pari a quello del re di Svezia, ma concepito come una sorta di investitura sacerdotale, da cui discende il dovere di svolgere il proprio ruolo all’altezza del compito che il Nobel si è prefissato: premiare il meglio della letteratura mondiale, senza badare alla fama dei candidati, anzi prediligendo possibilmente autori che, per diverse ragioni (lingua, sesso, genere letterario) partono in svantaggio. E noi, comuni mortali, non abbiamo forse pensato che fossero dei vecchi bacchettoni in versione politically correct, ma non ci saremmo mai immaginato che potessero finire invischiati in una gestione di potere simile a quella di chiunque si senta intoccabile?
Del Nobel per la letteratura abbiamo criticato e messo in dubbio tutto, fuorché la legittimità del suo prestigio. E visto che, come dice lo zio di Peter Parker, “a grandi poteri corrispondono grandi responsabilità”, la caduta di quel prestigio è commisurata all’altezza da cui è avvenuta. La sospensione del premio non mi pare quindi assurda né facilmente evitabile.
Però per me il caso offre soprattutto un’occasione per riflettere sulle impasse in cui si è spesso infilato il dibattito sulle molestie sessuali, persino in Italia, paese arretratissimo rispetto alle battaglie per la parità di genere. Paradossalmente, i misfatti che hanno investito un’istituzione che si proponeva come eticamente irreprensibile, rendono quanto mai palese che il centro della questione non è l’immoralità, ma il sistema di potere che lo consente. Persino nel più elitario ambiente culturale della piccola, progredita Svezia, un uomo ha potuto mettere le mani addosso a un numero elevato di giovani donne (inclusa, stando ai giornali, la principessa Victoria!), perché era un uomo di potere. Ha potuto reiterare la sua coazione sessuale e i suoi ricatti per oltre due decenni, anche se a differenza di un Harvey Weinstein, ha avuto accesso al potere per tramite di una donna: la moglie, diventata membro dell’Accademia di Svezia nel 1992, la quinta donna mai eletta e la più giovane.
Katarina Frostensen ha vinto importanti premi letterari prima ancora che la nomina nella giuria del Nobel consacrasse il suo prestigio. La sua poesia è stata pubblicata in molte lingue, in italiano sono uscite addirittura tre raccolte. Chiunque voglia farsene un’idea, può trovare facilmente dei saggi e delle liriche tradotte. https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/02/25/katarina-frostenson-poesie-scelte-traduzione-di-enrico-tiozzo-presentazione-di-claudio-angelini-tratta-dalla-prefazione-a-tre-vie/
Può darsi che la diffusione dell’opera di Frostensen sia stata favorita dal ruolo di giurata, ma altri membri dell’Accademia non godono della stessa fortuna all’estero.
Jean-Claude Arnault è diventato il “diciannovesimo membro dell’Accademia”, perché era il marito della rinomata poetessa Katarina Frostensen. Ciononostante si è comportato come uno di quegli abusatori le cui consorti (per quanto siano talvolta tutt’altro che prive di potere) si adattano a interpretare il ruolo di contorno della “Good Wife”. Bastava che quel matrimonio si sciogliesse, de iure o de facto, e il prestigio del massimo premio mondiale per la letteratura sarebbe stato salvo. Sembra infatti probabile che nessuno degli abusi di potere collegati al Nobel sarebbe mai venuto alla luce, se quelle donne non avessero rotto i silenzio sulle molestie che avevano subito. È questo l’inaudito dello scandalo, l’aspetto che complica gli schemi e che crea turbamento.
Cosa ha spinto una donna dal profilo di Katarina Frostensen, una donna oltretutto ancora di notevole bellezza, a restare legata a un uomo che la tradiva e la umiliava costantemente, seguitando a profittare della sua posizione? Perché ha continuato a esserne complice sino a trascinare l’intera Accademia di Svezia in quella coltre omertosa?
Non lo so, né voglio tirare a indovinarlo. So invece che le dinamiche di coppia sono spesso sorrette da schemi di comportamento che possono stridere fino all’estremo con i ruoli che quel uomo e quella donna interpretano fuori dalla relazione. So pure che ogni donna si rapporta come riesce (ma anche come le fa comodo) ai modelli interiorizzati che la società patriarcale le ha assegnato: l’acquiescenza, il bisogno di protezione, l’insicurezza se non la disistima incolmabile, l’aggressività repressa, la seduttività come metro di valore, la paura di restare sola ecc. Ci sono donne insospettabili che, nei loro assetti più intimi, assecondano i modelli della subalternità femminile fino a prestarsi alla vittimizzazione, e donne che proiettano sul compagno un desiderio di potere sregolato che non si addice a ciò che è stato insegnato alle brave ragazze. E se è impossibile e scorretto addentrarsi in congetture sul profilo psicologico di Frostensen, si possono invece esaminare alcuni aspetti che appartengono al mondo culturale e sociale in cui siamo immersi tutti e tutte.
Il primo punto è che, nelle società occidentali, il “capitale erotico” di un uomo resta infinitamente superiore a quello di una donna non più giovanissima. Come ha analizzato la sociologa israeliana Eva Illouz in Perché l’amore fa soffrire (Laterza), la possibilità di cambiare partner oggi costituisce il campo principale in cui gli uomini occidentali (eccetto quelli molto poveri, decrepiti, malati o affetti da altre tare gravi) possono riaffermare la propria virilità, ultimo baluardo di una supremazia maschile messa in crisi. I comportamenti cosiddetti predatori ne sono l’espressione estrema, per quanto la psicologia li consideri patologici e misogini nella sostanza. Misogina appare infatti la coazione ad affermarsi attraverso l’unico “scettro di (bio)potere” mancante a una donna che raccoglieva in sé la creatività artistica, l’alto profilo intellettuale, il prestigio dell’eletta. In più, lo scandalo del Nobel suggerisce che un uomo che occupa una posizione subordinata alla moglie, non abbia potuto semplicemente agire come qualunque “predatore” dotato di un potere di ricatto, ma che si sia imposto come “diciannovesimo membro dell’Accademia” proprio a partire da quei comportamenti. Nel momento in cui Frostensen e gli altri giurati acconsentivano a coprire le molestie di Arnault, lui riceveva la conferma di potersi oramai considerare, in tutto e per tutto, un uomo di potere.
Ma l’esempio della coppia di Stoccolma insegna, al tempo stesso, che secoli e secoli di cultura sessista non possono essere sconfitti a furia di denunce, di sentenze, o di condanne morali. Il portato di quella cultura investe infatti le relazioni intime di uomini e donne, dove entrano in gioco, nel bene e nel male, molti elementi che trascendono il sessismo. A modo suo, ne parla anche un film uscito di recente in Italia, Cosa dirà la gente, della regista norvegese di origine pakistana Iram Haq.
Nisha è l’orgoglio di un padre immigrato che ha sgobbato tutta la vita per far studiare lei e suo fratello, finché un giorno non la trova in camera con il suo ragazzo norvegese. A quel punto viene rapita e riportata nel paese d’origine per essere rieducata al ruolo sottomesso di una donna pakistana. Ma laggiù le cose vanno di male in peggio, il disonore della ragazza è tale che scampa per un soffio a un’uccisione riparatrice. Alla fine, riportata in Norvegia, l’unica cosa che la salva da un matrimonio combinato è l’amore invincibile del padre che è stato l’artefice del suo calvario. Il film ricorda che la legge patriarcale genera sofferenza vuoi in chi la subisce vuoi in chi la impone. L’infelicità di un adescatore seriale che anima la scena culturale di Stoccolma è assai meno evidente (senza dubbio a lui medesimo), così come sono più sfuggenti le ragioni perché la moglie ne abbia accettato il priapismo come qualcosa di ineluttabile. Nel film di Iram Haq, la madre di Nisha non ha cedimenti nel farsi strumento delle “giuste punizioni” della figlia, anzi è colei che più radicalmente ne tradisce la fiducia. Nella realtà di Stoccolma una poetessa laureata si è resa cieca alle donne assalite dal marito: forse con un odio che colpevolizzava gli oggetti interscambiabili della propria umiliazione, forse compiendo semplicemente lo sforzo di ignorarle. Il dominio maschile, sia più arcaico sia più “evoluto”, si regge sulla collaborazione delle donne. Perciò il lavoro per renderci più liberi dai modelli della mascolinità e femminilità sarà lunghissimo e potrà, a mio parere, riuscire solo se vediamo quanto ci rendano tutti più miserabili anche nelle forme a tutt’oggi accettate, o acclamate, nel mondo occidentale.
Quel che invece possiamo perseguire a partire dall’ondata del #metoo è l’obiettivo di dare una spallata a un sistema di potere che trova uno dei suoi cardini nella prevaricazione fallica, ma che esercita la sua azione tossica a un raggio molto più ampio. L’ingiustizia strutturale di quel sistema coinvolge sia le donne che ne sono vittime, sia quelle che ne approfittano a danno di altre e altri, sia gli uomini e le donne che ne sono esclusi perché non si prestano come prede, sia, infine, gli uomini e le donne che, obtorto collo o volenterosamente, se ne trovano collusi. È triste che a fornirne un esempio così nitido sia stato l’ambiente del Nobel per la letteratura, ma forse il fatto che persino lì un ampio abuso di potere abbia fatto tutt’uno con degli abusi sessuali, può renderci ancora più consapevoli che si tratta di una battaglia che ci riguarda tutte e tutti.
Helena Janeczek
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