«Sei innamorato?» ho domandato a Gabriele.
«Non ancora».
«E come conquisteresti una ragazza?»
«Dandogli la cosa più preziosa che ho. Il tempo».

Che bello essere poeti senza neanche saperlo. Ecco cosa ho pensato mentre lasciavo Torino l’altro giorno. Ero a Porta Susa e sentivo ancora addosso il brusio della classe che mi ha adottato. Adottare me poi, che responsabilità. Sarei stato in grado di essere un bravo figlio davanti a ventisei genitori? È stata la prima volta in una classe. Un po’ per vincere l’imbarazzo, un po’ per coinvolgerli, ho deciso di scendere dalla cattedra sedendomici sopra.
Non è stato facile entrare nel loro territorio. Qualcuno, quel giorno, aveva il cancello chiuso a chiave, come Alessandro, rapito dai suoi pensieri, e io l’ho rispettato perché in quello spazio che Nina Berberova ha definito no man’s land, io, ci bazzico tutti i giorni: ci scrivo dentro, mi ci innamoro, piango e mi dispero, vivo. Il fatto è che nel territorio degli altri bisogna entrarci in punta di piedi perché io lo ricordo bene com’ero alla loro età, anche una carezza sulla guancia poteva ferirmi.
Però qualche minuto dopo sono crollate tutte le barriere.
L’aula è diventata il nostro spazio: uno spazio libero.
Abbiamo affrontato temi che con gli adulti si affrontano spesso con malizia o imbarazzo. Oppure, come accade in televisione, urlando. Coi ragazzi non c’è bisogno di urlare perché si discute avvicinando le punte dei cuori. È stato bello far incontrare i nostri sogni. In quello spazio libero dove non esiste giudizio e diversità, ho incontrato allora qualche futuro calciatore, una cantante, un ideatore di videogame, una scrittrice, un grafico.

«A quanti anni hai scelto di diventare omosessuale?»

Questa domanda mi è arrivata all’improvviso da Luca, un ragazzo con la sindrome di Asperger e dotato di un super potere eccezionale: ti guarda con gli occhi più sinceri che io abbia mai visto. Pochi minuti prima, smettendo di disegnare, mi aveva interrotto con garbo per dirmi:

«tu vivi con la scrittura, per me disegnare è il modo di dire che ci sono».

Alla sua domanda ho risposto come avrei risposto a chiunque: sono nato così, non l’ho scelto. Per me è come dire di avere due occhi e due braccia, lo sono e basta.
Lui ha annuito.

«Sei nato così» ha ripetuto, poi ha continuato a disegnare. Ma a fine lezione mi si è avvicinato dicendomi: «se tu sei nato così, allora, io e te siamo uguali e possiamo essere amici».

Non ho capito immediatamente il significato delle sue parole, me l’ha spiegato un po’ dopo la sua professoressa. A lui, i grandi, hanno spiegato che con la sindrome di Asperger ci è nato e che non è diverso dagli altri. Così il cervello di Luca ha collegato le due cose: io sono nato così, tu sei nato omosessuale, ma siamo uguali e possiamo essere amici.
Hanno voluto sapere molte cose di me. Dei miei fidanzati, delle fotografie che scatto, della mia vita in America. Gli ho parlato allora dei primi giorni a New York, dove ho vissuto a lungo, e di quando avevo trovato su Internet una casa underground e per underground, io che non capivo una sola parola d’inglese, intendevo i Velvet.

«Andrò in una casa rock’n’roll» avevo detto allora a tutti miei amici, qualche giorno prima della partenza.

Arrivato fuori il portone mezzo rotto dell’indirizzo che avevo segnato su una mappa di Manhattan (51 Market St.), ad aspettarmi trovo un pezzo di carta appiccicato col nastro adesivo: “BUZZ DOESN’T WORK. CALL K”. Citofono rotto, chiama K.
K era Katy, quella che sarebbe diventata la mia futura coinquilina. Ho iniziato a urlare il suo nome: «Katy, Katy, Katy!» guardando il primo, il secondo e poi il terzo piano.
Non sapevo neanche a che piano avrei abitato.
All’ennesimo Katy urlato a squarciagola, la sua testa bionda è sbucata da una piccola fessura all’altezza del marciapiede. «Welcome, italiano!».
Quel giorno avrei avuto due nuove consapevolezze: che avrei abitato in uno scantinato e che underground non significava rock’n’roll. Significava: sottoterra.

«Hai mai avuto voglia di tornare indietro?» mi ha chiesto allora Alessia.
«Solo una volta. Era il giorno di Natale e nel 2007 il Wi-Fi non era così diffuso come lo è oggi. Nella topaia dove vivevo si era rotto il modem. Allora sono andato in uno Starbucks e ho trascorso due ore su Skype coi miei genitori. In Italia era quasi ora di cena, io invece pranzavo con un disgustoso sandwich al pollo mentre al telefono sentivo il rumore dei piatti e la felicità dei miei familiari. Davanti a me c’era un barbone che si era addormentato su una poltrona. Buon Natale a me!».

Tantissime cose non le avevo mai raccontate a nessuno. Il fatto è che tutti quegli occhi addosso mi hanno disarmato e questa sensazione di disarmo ancora oggi non va via. È come una vecchia felpa di un amore che non c’è più e ogni tanto l’annusi e pensi alle cose belle che sono successe.

«Hai mai avuto la sensazione di non riuscire a dire qualcosa e poi pentirtene?» mi ha chiesto infine Lorenzo, spiazzandomi. Ho avvertito la sua fatica a pormi quella domanda.
Mi è venuto spontaneo rispondergli così: «magari ti stai solo preparando a dire le cose giuste. Pensa tra qualche anno, ti troverai davanti a un datore di lavoro che dovrà decidere se assumere uno come te oppure un altro che parla a vanvera e dice mille cose. In mezzo a tutte quelle parole arrivi tu e dici una sola cosa, quella giusta. Secondo te chi sceglierà? La tua timidezza è il dono più grande, non è un limite».

Solo in quell’attimo mi sono reso conto che in fondo stavo parlando di me.
Questi ragazzi, in questo periodo della mia vita, sono diventati i miei angeli custodi. È stato difficile catturare la loro attenzione ma quando riesci a sincronizzarti con loro, entri a far parte di un respiro solo e allora hai la sensazione di aver preso il volo e di essere arrivato in alto, dove ogni cosa è magia.

Maurizio Fiorino

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