Leggi il resoconto della scrittrice adottata Evelina Santangelo e di Maria Conti, la professoressa referente del progetto

Incontrare i detenuti della Quinta sezione dell’Ucciardone e discutere con loro del mio romanzo è stato un po’ come passare ai raggi x Da un altro mondo riguardo ad alcuni aspetti cruciali.

Dopo il primo incontro in cui ho fatto una sorta di «mappatura» del romanzo, cercando di delineare le storie e il modo in cui si intrecciano tra loro (dalla Sicilia e da varie regioni d’Italia fino al cuore d’Europa, Bruxelles), abbiamo iniziato a scandagliare la natura dei protagonisti: la madre belga che cerca il figlio finito chissà dove (forse in ambienti jihadisti o neonazisti); il ragazzino Khaled che protegge a tutti i costi il suo trolley rosso; il vecchio Orso che da uomo brutale è costretto a fare i conti con la comparsa di un bambino nella propria cascina…

La prima cosa che è stata oggetto di riflessione ha avuto proprio a che vedere con questa «strana cosa» di un libro fatto di storie «reali» che però parla di fantasmi. Quindi, il primo nucleo di riflessione ha riguardato il mistero dei «bambini-viventi».

Non mi era mai accaduto prima che qualcuno dicesse in modo netto una frase così: «Quei bambini-fantasma sono come le colpe, che ce le hai sempre davanti quando ti guardi allo specchio, le colpe che non vuoi vedere, ma con cui devi fare i conti tutti i giorni».

Né mi era mai accaduto che qualcuno mi dicesse: «Lei è un’autrice rivoluzionaria… perché è una delle cose più difficili parlare di questi amori così, che non sono sentimentali, come quelli tra moglie e marito, cioè tra persone che si vogliono bene, cose normali… Lei racconta di un amore a 360 gradi per l’umanità… e oggi uno è rivoluzionario se ci riesce… in un mondo dove tutti sospettano o odiano tutti gli altri…». 

Man mano che si andava avanti con le riflessioni e gli incontri, emergeva un mondo di pensieri che mi ha lasciata abbastanza sbalordita, per la profondità e la forza delle parole pronunciate su temi come la colpa; il pregiudizio; la dignità; la differenza tra la legge e diritto; la pietà; la forza (per alcuni) o debolezza (per altri) di una madre che impazzisce alla ricerca del figlio; l’orgoglio di essere un padre che, nonostante tutto, non lascia da solo un figlio (un tema che a qualcuno stava davvero particolarmente a cuore contro l’idea prevalente che «solo le madri sono disposte a fare tutto per i figli, quando non è così», ha detto un giovane detenuto)

Nel secondo incontro, ad esempio, abbiamo affrontato il tema dell’universalità dei diritti, perché un giovane detenuto ha detto che avevano studiato la Dichiarazione universale dei diritti del 1948… E questo tema del riconoscimento dei diritti si capiva benissimo che a molti di loro stava particolarmente a cuore, perché aveva a che fare con la possibilità di non essere giudicati «in modo definitivo», a vita, in base al reato commesso, mentre «le persone cambiano…», come nel caso di uno dei personaggi del libro, il vecchio Orso, che inizialmente è una «brutta persona» – hanno sottolineato in molti, – ma poi «ha dentro del bene che viene fuori».

E, riguardo al bene che poi in modo imprevedibile può venir fuori, c’è chi ha riconosciuto come il carcere fosse stato per lui un’opportunità, perché in carcere aveva avuto modo di studiare, riflettere, fare i conti con se stesso e infine avere il coraggio di ammettere di aver sbagliato. E chi lo ha detto ha pronunciato queste parole con grande dignità e anche commozione, mentre un altro diceva che faceva male sentir dire alla gente che «bisogna chiudere dentro una persona e buttare la chiave, come se siamo niente».

Nell’ultimo incontro si è molto discusso ancora del marchio, del pregiudizio, e di come questo modo di considerare persone e cose, la mancanza di fiducia nell’altro, faccia prevalere la paura, la violenza, e la non speranza. «Uno esce di qua ed è un ex detenuto e basta… Nessuno dà lavoro a un ex detenuto», ha detto un ragazzo, mentre un altro condannato a un fine pena mai mi ha confessato che si sta ispirando ad alcuni passaggi del libro per scrivere delle poesie, il suo modo di «evadere con la testa».

Solo alla fine mi hanno chiesto del titolo «Da un altro mondo». Ma è stato semplicissimo dire che i mondi che racconto sono tutti mondi sommersi, ognuno a proprio modo, invisibili, mondi e vite che sembrano appartenere a «un altro mondo» appunto.

«Come qui, che la gente non sa niente di cosa vuol dire il carcere…»

Insomma, questi incontri si sono trasformati, in modo del tutto imprevedibile, in un mio personale percorso interiore che ha smantellato quasi tutto quello che avevo immaginato, prima di iniziare.

Adesso vorrebbero altri libri da leggere. Desidererebbero per esempio Terra matta, l’autobiografia del bracciante semianalfabeta Vincenzo Rabito che ho curato per l’Einaudi, perché più di uno di loro, ho intuito, vorrebbe proprio riuscire a scriverla, prima o poi, la propria vita, soprattutto chi sa che dal carcere non uscirà mai.

Evelina Santagelo

Carissimi il nostro percorso, come diceva Evelina, può sembrare retorico dirlo, è andato benissimo Ed ha preso direzioni davvero inaspettate ma piacevolmente sorprendenti. Evelina sapeva da dove partire, io sapevo con chi sarei partita. Ma nessuno dei due sapeva dove o a cosa saremmo arrivate.
Dopo il silenzio attento del primo incontro, le riflessioni sono maturate è scaturita nel corso degli altri due appuntamenti, fino a toccare tematiche veramente importanti. Dice infatti Vincenzo con il suo tono di voce pacato: “la conoscenza è più importante della violenza, l’importante è che ognuno faccia il proprio dovere di cittadino. A me il carcere ha permesso di fare un viaggio dentro me stesso, e rapporto che qui sviluppiamo con gli operatori ci porta ad un cambiamento radicale”.
Per questo vorrei fare un salto indietro e raccontarvi un po’ di backstage. La scelta dei partecipanti è stata frutto di un lavoro di sinergia tra me, l’educatore referente dell’autorità scolastiche e l’assistente di polizia penitenziaria addetto alle scuole. La selezione non è mai semplice e la riuscita delle attività dipende da tante variabili. Quando ho proposto l’iniziativa ai miei alunni, alcuni erano entusiasti, altri dubbiosi di non essere in grado di affrontare la lettura di un libro, ma tutti unanimemente, presi dal senso di responsabilità, mi hanno detto che potevo stare tranquilla perché non mi avrebbero fatto “sfigurare”. E dopo ogni incontro nei giorni successivi c’erano i commenti in classe: “Ma come siamo sembrati? Ma la scrittrice che ha detto di noi?” E poi ancora: “Certo che è tosta… ha le sue idee”. Io li guardo e sorrido, li incoraggio e li prendo in giro per sdrammatizzare, perché dopo tanti anni di lavoro con loro ho imparato che soffrono inguaribilmente dei traumi e dei postumi che la malattia del pregiudizio ha lasciato loro. Chiunque venga da “fuori” per loro rappresenta un esame da superare, perché in maniera inevitabile si sentono osservati e giudicati. Questo rivendicano:essere guardati come persone. Lo hanno chiesto infatti ad Evelina: “Che impressione ha avuto del carcere?” ma in realtà intendevano dire: “Che impressione ha avuto di noi?” e
chiaramente nell’ultimo incontro la tematica del pregiudizio è venuta fuori, prima affrontata come riflessione su libro, poi in maniera diretta, in cui tutti si sono indicati come vittime del pregiudizio della gente che li marchia come detenuti, quindi poco di buono. Mentre loro parlavano, io li guardavo e gli ho ricordato che ogni tanto anche loro mettono in campo i loro preconcetti, ad esempio contro le donne. E anche qui con loro entriamo in un campo minato perché, se le mamme come Karolina sono le migliori donne del mondo, non sempre si può dire lo stesso delle altre.
È chiaro che nei loro vissuti le mamme rappresentano un punto fermo e un porto sicuro; spesso non è così per mogli o fidanzate, che li hanno abbandonati nei momenti cruciali della loro vita. E sanno anche che il pregiudizio ed un pizzico di diffidenza a volte è rivolto anche contro noi donne che scegliamo di lavorare in un mondo di frontiera
come un carcere. Siamo strane creature noi che hai loro occhi poi ci guadagniamo la loro fiducia, il loro rispetto, e a volte persino l’amore stima. Tante altre cose sono venute fuori e speriamo di avere l’opportunità di discuterle insieme a Torino.
Grazie e a presto.

Maria Conti