Non sempre gli scrittori sono consapevoli di quanto ciò che scrivono parli di loro. I dubbi sottintesi, le fragilità camuffate non sfuggono all’occhio del lettore attento: un piccolo dettaglio cattura la sua attenzione e diventa un rompicapo da risolvere, l’indizio di una entusiasmante caccia al tesoro che lo avvicina sempre di più al modo di sentire e di pensare dell’autore. Qualche volta, lo porta addirittura oltre.
Qualcosa di simile deve aver pensato una stupita Hanne Ørstavik intervistata da Nadia Terranova sul suo romanzo Amore, scritto ventitré anni fa. Amore non è un racconto che si possa ricondurre a un’unica tematica, né si identifica semplicemente con la sua trama: anche il titolo è una promessa delusa, perché l’amore, nel romanzo, resta un interrogativo irrisolto, lo spettro di qualcosa che si sa che esiste, ma non che aspetto abbia. La stessa autrice lo definisce un romanzo “pericoloso”, perché costringe a fare i conti con l’affettività, a interrogarsi sulla propria capacità di amare – e di essere amati – a togliere il passato dal cassetto, rispolverarlo e chiedersi se, oggi, abbiamo trovato la risposta ai dubbi e alle domande che avevamo messo da parte. Hanne spiega di aver vissuto momenti di profonda solitudine dopo la nascita della figlia, avvenuta quasi contemporaneamente al rigetto della sua candidatura all’Unione degli Scrittori Norvegesi. In quel momento della sua vita, “amore” era una parola vuota, un contenitore che bisognava riempire: per fare questo, ha cominciato a scrivere.
I protagonisti del romanzo sono un bambino di otto anni, Jon, e sua madre Vibeke. In un paesino nell’estremo nord della Norvegia, madre e figlio vivono nella stessa casa, condividono gesti e abitudini quotidiane prendendosi cura l’uno dell’altra, eppure abitano due mondi distanti ed estranei. Il racconto, che copre l’arco di un’unica notte, segue di volta in volta l’uno o l’altro personaggio, senza soluzione di continuità tra le due voci narrative. Jon è solo a casa la notte del suo compleanno, mentre Vibeke, credendolo serenamente addormentato, è uscita per andare in biblioteca. Jon è preoccupato per sua madre, tende l’orecchio nel tentativo di catturare un indizio, lo scricchiolio della ghiaia, la luce dei fari dell’auto, che annunciano il suo ritorno. Jon ama sua madre; e Vibeke, lei ama suo figlio?
Le luci del luna park, la figura che vende i biglietti della lotteria, le pietanze descritte, il colore delle case: Nadia Terranova si rivela una lettrice precisa, sollecita, amorevole, pronta a dare per ogni dettaglio una chiave di lettura che spalanca un universo interiore che la stessa Ørstavik non pensava di aver riversato a tal punto nel suo romanzo. La risata dell’autrice sottolinea ogni osservazione puntuale della sua interlocutrice, e ne conferma la veridicità. “Non ci avevo mai pensato, ma hai ragione. Il libro mi piace molto più quando me lo racconti tu: è questo il bello di farsi intervistare da uno scrittore”, dice. E aggiunge “Io non ho mai pensato molto al significato di quello che scrivevo. Ho sempre avuto fiducia nel fatto che i sentimenti che provavo sarebbero semplicemente passati al testo”.
Tra gli autori a cui fa continuo riferimento cita Virginia Woolf, con cui condivide l’idea che la scrittura sia una dimensione androgina, in cui si travalica il concetto di genere ampliando e superando i confini imposti nella realtà. I libri della Ørstavik sono popolati da numerosi personaggi che definiremmo gender fluid: è la continua ricerca di un’identità, l’espressione della propria tensione interiore che affascina l’autrice di Amore. E poi troviamo Catherine Dunne e Elsa Morante, che con La storia ha dato voce a un rapporto tra madre e figlio in cui l’amore è quasi una presenza concreta, o meglio una feroce affermazione. “Scrivendo, un po’ alla volta lo sto imparando anche io”, conclude la Ørstavik.
Agnese Giaccone
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