Francoforte, 1963, Eva viene richiesta per un lavoro da interprete dal polacco al tedesco. È abituata ad avere a che fare con trattati economici e quando si trova di fronte alla testimonianza di un sopravvissuto di Auschwitz non riesce a tradurla in maniera corretta, sia perché non vuole sia perché non è abituata a quel vocabolario.

Ritrovandosi completamente spaesata, inizia a chiedersi il motivo per cui lei stessa si sente ignara di una situazione che avvolge tutti gli abitanti in una nuvola di segretezza e indifferenza. Cominciano le indagini che la porteranno a scoperte sconvolgenti.

Annette Hess, nel suo libro “L’interprete”, espone il silenzio della Germania del Secondo Dopoguerra come un passaggio indispensabile affinché si possa riscrivere la storia di un Paese in modo democratico, passando attraverso l’oblio per poter raggiungere la luce.

Appare fondamentale, in seguito, il senso di colpa che prova l’autrice per essere tedesca in un mondo dove questa nazionalità viene associata al nazismo e alle carneficine di Adolf Hitler. L’autrice racconta come innumerevoli volte le sia capitato di andare all’estero ed essere accolta con il saluto hitleriano “Heil Hitler!”

Ad aggravare questo senso di colpa, contribuisce la scoperta della presenza del nonno nella Polizia Polacca: l’autrice, una volta informatasi, rimane sconvolta per le atrocità che un parente a lei così vicino potrebbe aver commesso.

Annette ci tiene a precisare che non bisogna smettere di essere contro le ideologie razziste perché il passato non rimane tale, ma può essere rivissuto.

“Bisogna essere critici in maniera democratica, liberale e umana. Bisogna continuare a essere scomodi.”

Roberta Fois e Sonia Parrone, Liceo Alfieri