Fra le mille regole che vigevano in casa quando ero bambina, ce n’era una in particolare che non ho mai vissuto come un’imposizione forzata: tutti i giorni, prima di dormire, leggiamo un libro. Così diceva mia madre.
Non ho mai contestato; era piacevole addormentarsi con la favola della buonanotte, dopotutto quando si è piccoli ascoltare una voce che racconta una storia è, talvolta, più efficace della ninna nanna – che io, tra l’altro, detestavo. Perciò ho questi vaghi ricordi di parecchi racconti, volumi illustrati, brevi romanzi, che trovavano il proprio posto sul mio comodino vicino al letto.
Una sera, dopo settimane di lettura accanita, terminammo un tomo di duecento pagine costellate da alcuni disegni dal quale, da sola, ogni tanto sbirciavo e leggevo qualche frase soddisfatta.
Finita l’ultima pagina, mia madre mi guardò e mi disse che dal giorno successivo avremmo fatto una prova; mi stava decisamente proponendo una sfida e io già avevo la sensazione di non sapere come affrontarla. Mi guardò e tirò fuori un libricino blu, minuto, con in copertina un grande gatto nero con il muso all’insù e una gabbianella che gli volava sopra le orecchie. Credo tu possa iniziare a leggere da sola, mi disse, e penso che questo libro faccia al caso tuo.
Lo presi in mano e, sgranando gli occhi, lessi: Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare. Luis Sepúlveda. Romanzo. Iniziai a sfogliare minuziosamente tutte le pagine: non c’erano disegni, se non all’inizio di ogni capitolo, le parole mi sembravano infinite e troppo complicate; mi sembrava un’impresa impossibile.
La sera seguente mi presi coraggio – con sempre mia madre al mio fianco – e iniziai. Leggevo a voce alta, scandivo bene ogni sillaba e mi fermavo ogni volta che non capivo qualcosa o non riuscivo a pronunciare correttamente proprio quel dittongo noioso. Non ricordo quanto ci misi, ma più il tempo passava e meno avevo bisogno che qualcuno mi spiegasse come leggere una certa frase o mi aiutasse a comprendere il suono corretto di due consonanti accatastate l’una all’altra.
In un batter d’occhio mi affezionai a Zorba, a Fortunata, a tutti i gatti del quartiere. Leggere iniziò a diventare non solo un rituale pre-nanna, come lo chiamavo a casa, bensì iniziai a cercare il mio libro ogni qualvolta avessi un momento vuoto da poter riempire: all’intervallo a scuola, dopo pranzo, prima di cena. Improvvisamente mi sembrava di essere entrata nel racconto talmente tanto da poter quasi predire le azioni dei personaggi, mi sentivo come se io e l’autore fossimo entrati in una particolare simbiosi in cui ero in grado di pensare le sue stesse cose.
Mi sentivo soddisfatta: era la prima volta che intraprendevo un percorso così importante ed ero contenta di viaggiare sulle parole di Sepúlveda.
Quando finii il romanzo, decretato ufficialmente come il primo libro letto da sola dall’inizio alla fine, ebbi la sensazione che quelle pagine sarebbero rimaste con me per sempre.
Negli anni mi sarei poi trasformata in una lettrice accanita, curiosa; avrei continuato a leggere – divorare – tantissimi libri, continuando a ricordare con affetto il momento in cui avevo imparato.
Sepúlveda avrebbe sempre avuto un posto riservato nella mia libreria, poiché con il tempo sarei riuscita a scoprire che oltre ad essere un incredibile autore per ragazzi era anche un eccelso romanziere e, ancor prima, un Uomo con la U maiuscola. Perché, dietro la sua scrittura, si celava una cultura infinita e un sistema valoriale denso di empatia e coraggio. La sua storia è costellata di audacia e forza d’animo, amore e dedizione per le battaglie che ha sempre portato avanti, generosità disinteressata.
A distanza di una decina d’anni dal mio primo approccio con il mondo della letteratura avrei anche avuto l’incommensurabile onore di assistere ad una conferenza con l’autore, in uno dei miei luoghi del cuore: Il Salone del Libro di Torino. Finalmente avrei visto con i miei occhi il volto di quel personaggio così fondamentale per la mia crescita. La sua voce pacata mi avrebbe commossa, la sua umiltà mi avrebbe fatto comprendere la sua grandezza.
Poche volte capita, nella vita, di sentirsi in debito con qualcuno che nemmeno si ha mai conosciuto: io, nei confronti di Luis Sepúlveda, mi sento così. È stato il maestro che è riuscito, fin dal primo giorno, a farmi appassionare a quello che insegnava; con parole semplici è stato in grado di trasmettere a me come a migliaia di altre persone i valori fondamentali dell’umanità raccontando quelle che erano storie della buonanotte non solo per bambini.
Sepúlveda ha avuto la capacità di insegnarmi che solo credendo nei propri sogni è possibile realizzarli. Volare, come la gabbianella della sua storia, è un’esperienza accessibile a chi osa farlo. E io gli sarò eternamente grata, perché ho imparato ad avere coraggio di affrontare sfide che solo all’apparenza sono più grandi di me – come prendere un libro e leggerlo pagina per pagina, dall’inizio alla fine.
“Volo Zorba! So volare!” strideva euforicamente dal vasto cielo grigio.
L’umano accarezzò il dorso del gatto.
“Bene, gatto. Ci siamo riusciti”, disse sospirando.
“Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante”, miagolò Zorba.
“Ah sì? E cosa ha capito?” chiese l’umano.
“Che vola solo chi osa farlo” miagolò Zorba.
Zorba rimase a contemplarla finché non seppe se erano gocce di pioggia o lacrime ad annebbiare i suoi occhi gialli di gatto nero grande e grosso, di gatto buono, di gatto nobile, di gatto del porto.
Arianna Poli, Liceo Ariosto
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