«Che apprezzino le piccole cose, e la buona volontà». Alla domanda (capziosa, non si neghi) Se dipendesse da te, cosa vorresti che gli adulti che hai intorno capissero DAVVERO, una buona volta, a proposito della situazione in cui sei e siamo?, la quinta G dell’Istituto Velso Mucci sorpassa a destra la retorica. «La gravità dei problemi o del malessere non è maggiore se è maggiore l’età. Non è solo colpa di noi giovani, in questa situazione bisogna andare con cautela; siamo tutti ugualmente dotati della comprensione, questo momento non influenza solo le loro vite e la loro psiche ma anche le nostre. Se solo gli adulti, al posto di pensare e decidere per le persone più piccole, stessero in silenzio e apprendessero pure loro», chiosa il franken-collage delle loro risposte. Delle loro voci.
L’ho incontrata, questa classe, tre volte e malamente. E anche bene, però: anzi, meglio non avrei potuto. Provo a spiegarmi. Quando l’anno in cui vinci il toto- Adotta Uno Scrittore è, nell’ordine:
- lo stesso anno in cui ancora fatichi a ritrovarti nella definizione, tu esordiente eterna, tu paranoica, tu pennivendola con la sindrome dell’impostore,
- lo stesso anno in cui la Terra decide di vendicarsi, a suo modo, di Roland Emmerich e Wolfgang Petersen contemporaneamente, buttandoci dentro due staffilate precise a Matheson, Jackson e VanDerMeer vieppiù,
può capitare che sia complicato imbarcarsi in uno dei più bei progetti mai promossi da SalTo & co. Può capitare che gli incontri con la classe adottante — una classe già distintasi per docente illuminata, Simona Brero; una classe cimentatasi con Chilografia e quindi con disordini alimentari, violenza domestica e bulimia, tanto per appiattirla a tre tagline da cronacaccia — si debbano svolgere in modalità distopica.
Il primo incontro è diventato giocoforza un video. In giorni di imbarazzante migrazione digital-nazionale, in un Paese in cui il balzo in streaming è stato accompagnato da pianto e stridor di denti come qualsiasi altro momento di evoluzione collettiva, ho assemblato la prima Guida Pennivendola per Sopravvivere all’Apocalisse come unico rimedio egoriferito alla contraddizione in termini. Nel marzo-maggio 2020, coi genitori medici a 700 km di distanza e in prima fila, può capitare di dormire poco e non digerire la possibile iattura nascosta dentro la parola adozione. Può capitare di rischiare il pianto in gola nel parlare di famiglia fuor-di-metafora. Ma l’abbiamo sfangata. La parte peggiore? Di fatto incontrare la classe a senso unico, in differita: attraverso i loro messaggi-in-bottiglia, recapitati settimane dopo la visione, con discreto lag. Potenti, però.
Il secondo incontro ci ha visti complici: rispetto ai quarantacinque minuti previsti ci siamo trattenuti online per quasi tre ore, dalla chiacchierata sulle storie vere (poche) e false (tutte) ai sogni di futura gloria scribacchina. Trovo che la grassa posizione di privilegio su cui siedo debba farsi innesco il più spesso possibile — questo per mero, egoistico bilanciamento di punti karma. Ecco perché ho trovato impagabile ritrovare qualche membro della classe adottante tra gli iscritti ai corsi gratuiti dell’ufficio di cui ho il privilegio d’occuparmi.
Il terzo incontro, atipico ed esploso, ha coinvolto solo alcuni degli adottanti originari plus l’intera loro classe di riferimento — la quinta G che citavo in apertura. Impossibile accordarsi tutti, in tempi di stupididattica DAD. E quindi via così, con la clemenza di sconosciuti: altro che famiglia. Legittimamente basita, la quinta G. Eppure. Eppure disposta a mettersi in gioco. A ragionare di Animal Crossing, The Last of us part II, The Walking Dead e Cormac Mc Carthy. A condividere playlist da fine mondo — da Master KG a Fabri Fibra passando per Nirvana o Måneskin — ed eufemismi disarmanti («a me manca uscire in giro con la mia fidanzata. Vivendo distanti è difficile vederci, mi accontenterei solamente di una passeggiata con lei in mezzo alla natura»; [mi manca] «palestra, perché per una volta che avevo deciso di impegnarmi su me stesso e lavorare sulla cosa più difficile, ovvero l’insicurezza, il virus è riuscito a togliermi anche quella»; «fare musica con i ragazzi con cui ho iniziato, con la stessa voglia e passione»; «anche solo un’uscita con i miei amici, o anche solo non poter vedere mia nonna nonostante abitiamo nello stesso paese»). Capace, la quinta G, di zippare il 2020 in parole che siano diverse da virus, pandemia o positività: spuntano allora distacco, resistenza, noia, delusione. È che «ci siamo dovuti adattare per sopravvivere, un po’ come gli animali a seconda del territorio in cui vivono», scrivono. «E niente. Perché è un mood». Capace di condividere storie personali a posteriori, «piccole gioie / in una vita / disastrata»; oppure utopie come la «foresta delle favole», che «spesso si faceva trovare dalle persone tristi, che si erano perse da tempo, incastrate tra i loro pensieri. Si dice che [la foresta] racconti ciò che manca alle persone, rendendole felici, ed è in grado di farle vivere per un lasso di tempo variabile nel loro mondo ideale».
La frequentazione-adozione è caldamente raccomandata. Dà prospettiva. Non c’è frustrazione professionale o velleità pseudoartistica da cui un’ora coi 12-18 non possa curare: e questo lo scrivo bacchettandomi mentre lo faccio, conscia che la mia esperienza di zia simpa che insegna le balle strutturate (definizione adulta, non loro, si metta agli atti) possa non essere affatto indicativa di una docenza — né di un’interazione — reale o verosimile. Resta il fatto che è una faccenda d’immaginazione. E memoria. Siamo il mentore, nelle narrazioni di cui queste ragazze e questi ragazzi sono protagonisti. Saliamo sul pulpito per pochi minuti o mesi. Giudichiamo. Spesso non ricordiamo. Non teniamo alto lo specchio. Quando basterebbe cercare terreno comune, da immersi nel brodo delle storie di gottschaliana memoria: e chiedere consigli di lettura, ascolto, visione. Spunta persino «Teen Wolf: potrebbe non entrarci nulla ma almeno loro si salvano tutti!».
Prima di sorridere — prima di banalizzare e ridimensionare, cattivisti anonimi — fermiamoci un momento: non è questo che chiediamo alla letteratura, alle storie tutte? La possibilità di esorcizzare il terrore, l’occasione di tirarci al riparo? Di farci rifugio?
Domitilla Pirro