DISCORSO – APOCRIFO – PER L’ACCETTAZIONE DI ADOZIONE
A diciassette anni non si può essere seri.
Ho pensato a come iniziare questo discorso. E mi è venuto in mente come ero io alla vostra età, e mentre lo pensavo mi sono ricordato di questo verso di Rimbaud. Io, Demetrio Paolin, a 17 anni l’età che avete ora voi che mi state davanti, non ero serio; oppure sì lo ero, ero così serio che nessuno se ne accorgeva. Nessuno aveva idea di cosa mi passasse nella testa, di quali fossero i sogni, o le aspirazioni, per non parlare delle ubbie, le paranoie che avevo nel corpo a quell’età.
A 17 anni leggevo Pavese seduto su di un prato, o appoggiato alla panchina della vecchia pieve romanica del mio paese – mille abitanti, le scuole elementari e medie, un bar, nessuna libreria, nessun cinema, nessuna biblioteca pubblica. Prendevo la bici e scendevo nella valle, dove scorreva un fiume che si chiama Versa, una riga d’acqua simile una vena, facevo qualche chilometro e poi arrivavo in un punto e leggevo. Il mio corpo cambiava, io con lui, e i libri che mi portavo dietro erano la mappa di quello che avrei voluto essere.
Non credevo che sarei campato, ve lo dico ragazzi che ora mi guardate dai banchi, non lo credevo; sentivo che ogni cosa congiurava contro di me, sentivo su di me un sortilegio; sedevo nelle panchine dei giardini del paese e guardavo i vecchi, che morivano uno a uno, e venivano sostituiti da altri e pensavo che io così non ci volevo stare, che in quel modo ci sarebbe finito qualcuno altro che non ero io.
Sentivo delle cose dentro, ecco avevo delle cose dentro che scalpitavano, ognuno di voi sente questo, ognuno – non fate no con la testa, tanto non vi credo -; ognuno di voi ha un grumo non espresso di cose che vorrebbe far uscire e non trova il modo. Io leggevo allora, leggevo ogni libro, e più il libro era strano e difficile più lo consumavo. Leggevo Cavalcanti, Swift, Milton, Donne, Dante, Pavese, Baudelaire, la Bibbia. Tutto.
E oggi sono qui e ho scritto libri, che se non avessi scritto non so cosa avrei fatto della mia vita. Sono distratto, svagato, disordinato; anche come persona non sono bella. I nervi e i muscoli dei miei 17 anni sono diventati questa carne che vedete ora qui davanti a voi, il viso un po’ grasso, fuori forma e fuori peso: cerco di darmi un’aria giovanile con le scarpe da ginnastica e jeans, ma infine sono quello che vedere un 42enne sovrappeso, neppure molto sensibile. C’è questa idea, che forse anche voi avete e che io ho intenzione di sradicare, che lo scrittore (ma anche l’artista in generale) sia una persona sensibile.
Ebbene no.
Non lo siamo, o anzi parlo per me, non lo sono. Non so da dove mi viene questo sentimento del mondo e le cose che dico: mi siedo e scrivo, immagino e scrivo. Non scrivo quello che sento, ma quello che immagino. Come ora, che per decidere di scrivere questo pezzo, ho mi sono detto e ora? E ho chiuso gli occhi e ho pensato a uno scrittore che tiene un discorso a una classe di ragazzi di 17 anni e inizia citando Rimbaud.
Voi credete che la scrittura abbia a che fare con la vita del suo autore e vi sbagliate, quasi sempre la vita intima dello scrittore è un buco nero e inconosciuta a lui per primo. Ciò che sente lo scrittore lo sente come qualcosa di oscuro e indecifrabile. San Paolo dice che noi conosciamo il mondo come un enigma allo specchio, per dire che quello che noi vediamo è solo una immagine di ciò che è realmente e che questa immagine falsata non è altro che un enigma inconoscibile. Gli scrittori, e io con loro, trafficano attorno a questa materia.
Di colpo abbiamo l’impressione di intuire qualcosa di profondo, e i personaggi incominciano a girarci intorno come dei fantasmi reali e li facciamo muovere e li facciamo agire tra di loro. Creiamo delle relazioni tra i personaggi e le cose, tra le cose e il mondo che ci circonda. Non abbiamo pensieri, non abbiamo profondità da attingere o messaggi da lasciare, solo un gomitolo di relazioni da raccontare.
Se ci pensate ogni libro ha una trama, e la parola lo dice da sé: è un insieme di fili che si tengono legati li uni agli altri. Ogni volta che scriviamo facciamo una trama. Di relazioni. Di idee. Di ossessioni. Cerchiamo di rendere tutto questo bello e piacevole.
Ho usato la parola bello, è ovvio che uno scrittore è quasi costretto a parlare della bellezza. Arriva un punto in cui te lo chiedono, in cui qualcuno alza la mano, durante una presentazione, una intervista, un reading o altro e ti chiede cosa è la bellezza. E qui di solito io sbuffo, sapete, mi viene proprio un po’ di disagio, di vergogna. Io so scrivere, ma non so spiegare le cose. Non so definire i fenomeni, altrimenti avrei fatto il filosofo o il teologo o il politico o l’ingegnere. La cosa che mi riesce meglio è fare degli esempi. E quindi ora vi dovete accontentare di questo.
Io ho un padre, come ognuno di voi, mio padre fa l’elettricista. Il suo lavoro è far passare i fili nei tubi e costruire contatti, mettere le prese etc etc. Quando ha finito va al pannello centrale, il contatore, e schiaccia l’interruttore, e se ha fatto un buon lavoro i lampadari, i faretti, il frigo, la televisione, lo stereo e lavatrice s’accendono. Lui guarda tutto e dice: Funziona.
Ecco la bellezza, la bellezza di un testo che scrivo, è tutta qui. Io faccio collegamenti, unisco le parole, le faccio girare fino a quando si mettono in una posizione che mi pare consona – ovvero suona il più uguale possibile all’immagine nella mia mente -, e quando questo avviene mi dico: ok, funziona.
Ad esempio questo pezzo funziona, se siete arrivati fino a qui, perché altrimenti ho scritto una robaccia, e questo può accadere, accade che scrivi una cosa orribile, succede che fallisci e sbagli. La cosa terribile di scrivere è che non puoi dare la colpa a nessun altro che non sia tu. Lo scrittore è solo quando sbaglia, le parole che ha scritto gli cadono addosso. Non può dare colpa al vento, alle condizioni esterne etc etc. No, è solo con la sua storia fallita.
Questo ragionamento porta a dover nominare un altro di quei termini fondamentali per un autore: responsabilità. Lo scrittore ha una particolare forma di responsabilità che è legata alla parola. Ogni parola che uso, il tono che uso, la sintassi che decido di utilizzare sono pensate, sono decise da me in maniera razionale e conscia. Perché se qualcuno di voi tra qualche giorno, mese o anno venisse a chiedermi ragione di una cosa che ho scritto, ecco io devo saper rispondere, devo saper prendermi il carico che quelle parole hanno smosso nel lettore.
Perché alla fine lo scrittore questo fa, modifica la vita di chi legge, anche solo per un attimo impercettibile, anche solo per un leggero sommovimento del ciglio, gli fa intravedere qualcosa di diverso rispetto alla sua vita e a quello che pensava: questa interferenza, come lo sfarfallio delle lampadine prima di bruciarsi, la chiamo verità. Lo scrittore, che lo voglia o meno, che lo ammetta o no, cerca la verità, cerca quella cosa che possa svelare a lui e agli altri qualcosa che non sapeva.
Alcune volte la verità è orrenda, altre volte bellissima, altre banale come la pioggia in primavera, ma non è mai neutra. Perché vi apre percorsi e nuovi interrogativi, la verità dello scrittore non è un monolite, ma è un segnavia in montagna, vi indica qualcosa che è oltre, qualcosa che dovete ancora raggiungere.
Ecco credo che questo sia tutto. Ho finito, ringraziandovi di avermi addottato.
Demetrio Paolin
Demetro Paolin è stato adottato dal Liceo Scientifico “Galileo Galilei” di Alessandria
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