La biblioteca del carcere ha i soffitti alti e rimbomba tutto. Alle pareti gli scaffali coi libri, nel centro della stanza un cerchio di sedie, poco meno di venti. Ad accogliere Bergonzoni e i coordinatori di Adotta uno scrittore ci sono alcune insegnanti e la direttrice del Ferrante Aporti. I ragazzi arrivano poco per volta, a gruppi di due o tre: in venti minuti la sala si riempie. Gli studenti che partecipano all’incontro sono una dozzina. Insieme agli insegnanti hanno cominciato a lavorare sul suo ultimo libro, L’Amorte: una raccolta delle poesie che Bergonzoni ha scritto negli ultimi quindici anni. “Scrivo un’ora e mezza al giorno- racconta- poi quelle pagine le lascio lì, l’anno scorso le ho riprese in mano, ed è nato questo libro.”
Bergonzoni, malgrado il rimbombo, con la sua voce e il suo corpo d’attore satura la stanza. Come ripete lui più volte durante le tre ore di chiacchierata con gli studenti “tende al monologo”, ma riesce comunque ad instaurare un dialogo. Un dialogo che non ha a che fare solo con le parole, con la comunicazione verbale. E’ uno scambio emotivo o spirituale, come piace chiamarlo a lui. Nel cerchio di sedie della biblioteca del Ferrante Aporti ci sono persone che arrivano da ogni angolo d’Europa e del mondo. Marocco, Senegal, l’Europa dell’est. Non c’è nessun ragazzo italiano. La lingua è un ostacolo, ma solo apparente. Bergonzoni non rinuncia al suo uso pirotecnico della lingua, giochi di parole, registro alto e basso che si mimetizzano l’uno nell’altro, fino a confondersi. E’ una lezione difficile la sua, anche per i contenuti. Ma che parla di cose vicine ai ragazzi: la prigionia così simile al coma, l’essere pronti alla malattia, al carcere, alla “vita della morte”. E tutti lo ascoltano, tutti si lasciano attraversare dalle sue parole. Senza diffidenza. Quello di Bergonzoni è un lavorìo di significante, più che di significati.