Confini, frontiere, muri, ponti… sono parole su cui rifletto da anni e – almeno in parte – il frutto di queste riflessioni è confluito nei miei ultimi libri. In particolare in La frontiera.
Quante sono le frontiere che attraversano il mondo contemporaneo? Chi le attraversa? Chi le mette in discussione? Chi vuole invece presidiarle come fossero un fortino?
A quali altre frontiere (interne, esterne) rimanda la Frontiera per eccellenza della nostra epoca, e cioè quella tra il mondo di qua e il mondo di là, il Mediterraneo attraversato dai barconi dei profughi?
Parlare di tutto questo all’interno di un carcere, come mi è stato possibile fare a Saluzzo grazie al progetto Adotta uno scrittore, offre una prospettiva diversa su tale nuvola di domande, dal momento che a quelle immediatamente pensate se ne aggiungono altre.
Altre domande. E quindi altre frontiere – e quindi, spesso, altre fratture da ricomporre.
Quella tra chi è dentro e chi è fuori, la più evidente. Ma anche tutte le fratture che sono il prodotto della nostra società e che il carcere incorpora per poi lenire (o amplificare) a modo suo.
Non è la prima volta che mi capita di presentare un libro in carcere. So quanto i detenuti siano attenti lettori. Sono forse i critici più esigenti e precisi che si possa incontrare. Ma ogni volta per me si tratta di una esperienza nuova. E così è stato anche a Saluzzo.
Rileggendo gli appunti presi nel corso del primo incontro, ho ripensato a tre interventi in particolare, generati dalla lettura del mio libro.
Quello di un signore giordano che ha detto più o meno: “Voi in Europa fate tanti problemi quando si parla di profughi e rifugiati, e non vi rendete conto che in Giordania, un paese di soli 6 milioni di abitanti, sono stati accolti 2 milioni di siriani, oltre che a una grande quantità di profughi provenienti da altri paesi…” A chi gli ha fatto notare che tra giordani e siriani c’è una certa omogeneità culturale, ha risposto repentinamente: “L’Italia sarebbe disposta ad accogliere 20 milioni di francesi in fuga da una ipotetica guerra civile?”
Poi quello di un signore albanese che ricordava i naufragi nel Canale d’Otranto alla metà degli anni novanta. Uno in particolare, quello della Kater i Rades, a cui ho dedicato un altro mio libro, che ho deciso di portare al prossimo incontro. Quando gli ho risposto in albanese (servendomi delle poche decine di parole di quella lingua che conosco) una luce ha attraversato il suo volto, come se non gli fosse mai capitata una cosa del genere, in Italia, dentro e fuori il carcere.
Infine ho appuntato alcune frasi di un detenuto italiano che, a incontro finito, mi si è avvicinato chiedendomi a bruciapelo: “Perché hai citato Apocalisse 21 all’inizio del tuo libro?”
E qui a rimanere sorpreso sono stato io. Non solo perché una domanda del genere – stranamente – non me l’aveva rivolta nessuno, ma soprattutto perché il mio interlocutore si è subito lanciato in una esegesi biblica del testo attribuito a Giovanni. E allora ho pensato – mentre aggiungeva di essere diventato Testimone di Geova – che era stato tra i pochi a cogliere la dimensione religiosa, utopica, rivelatrice che si annida nei viaggi dei migranti ogni giorno. Religiosa nel senso che rimanda alla ricerca di una dimensione altra, della vita oltre la sua possibile dissipazione…
All’incontro non hanno partecipato solo i detenuti, ma anche alcuni studenti di Saluzzo. Ed è stato proprio questo incontro, questo reciproco confrontarsi da prospettive, età, convinzioni, posizioni diverse, seduti in cerchio in una stanza, ad aver creato – per molti dei presenti, credo – quasi uno stato di sospensione.

Alessandro Leogrande

Alessandro Leogrande è stato adottato dalla Casa di reclusione “Rodolfo Morandi” di Saluzzo che lavora insieme agli studenti de Liceo Artistico Soleri-Bertoni sempre a Saluzzo (Cn)

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