Nel corso del nostro secondo incontro organizzato dal progetto Adotta uno scrittore nel carcere di Saluzzo, sono state lette le testimonianze di due detenuti sudanesi che – scappati dalla dittatura di Omar al Bashir – hanno percorso il Lungo Viaggio attraverso il deserto e il Mediterraneo.
Attraverso le loro parole, il viaggio è apparso in una miriade di frammenti, dettagli, immagini, paure, sogni, non molto dissimili da quei frammenti fissati da Leonardo Sciascia in una racconto di molti decenni fa, Il lungo viaggio, raccolto in Il mare color del vino, un racconto in cui si narra di un gruppo di siciliani imbarcatasi su un peschereccio con il desiderio di raggiungere gli Stati Uniti.
Nel racconto di Sciascia, dei migranti della Sicilia interna hanno pagato un trafficante per realizzare il proprio sogno, e dopo dieci giorni di mare, incominciano a vedere i primi segni della terra ferma. Un fremito percorre l’imbarcazione. Quella terra appare loro in tutto e per tutto come l’America, e tale sembra anche quando scendono sulla sabbia e percorrono le prime strade, incontrando i primi abitanti, le prime automobili… L’incanto viene spezzato solo quando si accorgono di essere stati truffati e di essere stati riportati indietro in Sicilia. Non avevano mai lasciato il Mediterraneo.
Ho sentito spesso storie simili negli ultimi anni. Sia in relazione ai viaggi dalla costa albanese, sia in relazione ai viaggi dalla costa libica. Gli scafisti, dopo aver raccolto i soldi, spesso tornano indietro dicendo: “Quella è l’Italia, forza, andate!”, esattamente come nel racconto sciasciano il trafficante esortava i poveri siciliani a lanciarsi verso l’America.
I viaggi sono fatti di specchi e paradossi. E tali appaiono anche qui, in una stanza del carcere di Saluzzo, in cui tra detenuti e studenti ci si confronta su alcuni racconti – di ieri e di oggi – del Grande Viaggio.
Non solo racconti italiani. Non solo i film di Crialese e di Rosi e – andando più indietro nel tempo – di Amelio. Ma anche il bellissimo La gabbia dorata di Quemada-Diez, in cui si narra di un gruppo di ragazzini che tra mille pericoli e mille violenze attraversano il Messico nella speranza di raggiungere gli Stati Uniti, e di varcare il muro che separa i due paesi. Anche il loro desiderio di Usa è molto simile a quello dei siciliani di Sciascia.
Alcuni detenuti mi hanno chiesto perché non ho scritto un libro sul carcere.
Ho risposto loro che i libri richiedono tempo, pazienza, incontri, riflessioni, ripensamenti, i libri si scrivono e si riscrivono e questo processo – se vuole produrre qualcosa di reale, di vero – dura anni, non poche settimane.
Non si scrivono libri su commissione. Certo, si possono sempre fare, ma in genere non vengono bene. E comunque un libro scritto in poco tempo, un libro che non risponde a un fuoco interiore, che si genera nelle regioni più profonde dell’animo dell’autore che si appresta a scriverlo, ma solo alla necessità o al dovere di parlare di una certa cosa, in genere non è un buon libro… Ci sono autori che hanno scritto ottimi libri sul carcere, per il fatto di essere stati detenuti, o perché hanno saputo nel tempo avvicinare quel mondo. Hanno saputo ricreare quel mondo. Io, almeno in questo momento, non saprei farlo. Non in maniera giusta, non in maniera efficace. Potrei scrivere un libro sul carcere solo dopo aver immagazzinato dentro di me un bagaglio di riflessioni, esperienze e conoscenze tale da generare il bisogno di un racconto il più lungo possibile.
Da qui è partita una discussione sui molteplici modi in cui si può narrare la realtà, e sul tempo che essa richiede per essere percepita. Ancora una volta abbiamo discusso della parola Frontiera, e dei tanti modi in cui essa può essere interpretata a seconda dei punti di vista da cui si guardano le frontiere di cui facciamo esperienza. La Frontiera come trincea, come utopia, come muro da erigere…
Per uno studente del Liceo Artistico Soleri-Bertoni la Frontiera è come un vetro. Un vetro attraverso cui è possibile guardare gli altri, il mondo degli altri (il mondo di chi arriva, per chi sta qui; il mondo in cui arrivare, per chi sta lì), ma che allo stesso tempo divide in maniera impercettibile gli uni dagli altri.
La sua mi è parsa una metafora perfetta. Tanto perfetta che ognuno credo – almeno a me è capitato così – ha cominciato a pensare a come sono fatti i vetri che ci dividono. Quanto sono alti e quanto sono lunghi. E dove si possono rompere.
Alessandro Leogrande
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