Nel corso del terzo e ultimo incontro che si è tenuto al carcere di Saluzzo, siamo tornati su alcune delle questioni lasciate aperte dai precedenti incontri.

In particolare, abbiamo parlato di Shorsh, uno dei protagonisti de La Frontiera, un signore curdo iracheno scappato dalla dittatura di Saddam molti anni fa, che – appena arrivato a Roma – serbava un vivo ricordo del massacro di Halabja, la cittadina curda fatta gasare dal rais. Ci furono 5 mila morti.

Di chi è la colpa di quel massacro? Di Saddam e dei suoi aguzzini? O dell’Occidente che gli vendette le armi? E noi – noi – cosa dovremmo fare per intervenire davanti a simili massacri? Le domande sono sgorgate una dopo l’altra.

A parte constatare che la prima risposta da dare, evidente, è percepire chi scappa e arriva sulle nostre coste come il prodotto delle conseguenze di simili stragi, si è aperto un fitto dibattito intorno a un tema vecchio come il mondo e le sue narrazioni: di chi è la colpa del male subito o arrecato?

A un certo punto, nell’aula del carcere, ho raccontato una storia che mi è capitato di conoscere da vicino. Quella di un ex produttore di mine antiuomo, pentito delle sue azioni, che dopo aver dismesso l’azienda che ha diretto per anni è finito nei Balcani a sminare campi incistati di mine molto simili a quelle che aveva progettato e prodotto per tutta la vita.

Poi, a incontro finito, uno dei detenuti (il testimone di Geova che nel corso del primo incontro mi aveva posto a bruciapelo una domanda a proposito della citazione iniziale dell’Apocalisse) mi ha dato una lettera, scritta a mano, di suo pugno, con una grafia distesa. Benché scritta prima dell’incontro, la sua lettera toccava tutti i punti affrontati nelle due ore di dibattito.

L’ho riletta più volte prima di rispondergli qualche giorno dopo. L’ho fatto con queste parole.

Caro Giovanni,

ti ringrazio per la tua lettera, che ho letto e riletto con grande piacere e attenzione, facendo attenzione in particolare a tutte le citazioni bibliche contenute tra le tue righe.

Come ho detto anche nel corso degli incontri, scrivere un libro come “La frontiera mi ha portato a confrontarmi con il mistero della violenza nel mondo, e a come cambia la vita delle persone davanti ad essa. Perché alla fine, come anche tu dici, alle spalle dei rivolgimenti storici e politici, delle responsabilità internazionali e dei governi, arrivati all’osso delle cose, c’è sempre una violenza intollerabile esercitata da qualcuno contro qualcun altro.

Ecco, questa violenza, questo male – a volte radicale – che pure esiste, è il mistero del mondo. Sgomentano la violenza, le mattanze, le stragi, e sgomentano ancora di più quando avvengono nel silenzio. Quando le vittime sono mute, o quando il loro grido non viene ascoltato.

Come rovesciare questa violenza? Come superare questo scandalo?

Per chi ha fede, la strada è segnata da quello che dici: seguire il comandamento che dice di amare il prossimo tuo come te stesso.

Per chi non crede, o ha smesso di credere, la strada non è molto dissimile: riconoscere negli altri il volto dell’uomo, ciò che noi stessi siamo.

Ma nonostante questo, la violenza perdura ed essa ci apparirebbe davvero intollerabile se solo ascoltassimo davvero ogni giorno, ogni momento, il grido di chi soffre. A volte siamo noi stessi, volenti o nolenti, soggetti portatori di violenza, istigatori di violenza, difensori di una violenza, indipendentemente dal fatto che essa sia plateale o magari mascherata dentro le istituzioni.

Per questo credo che, anche quando non riusciamo a darvi una risposta, dobbiamo sforzarci di guardare il mondo attraverso gli occhi delle più umili e indifese tra le vittime. Guardare il mondo attraverso questa cruna dell’ago è l’unica cosa ci permette di rovesciare quello che in genere viene dato per immodificabile. Questo per me è il punto di partenza di ogni cosa.

Ti auguro ogni bene.

Un abbraccio,

Alessandro Leogrande