Occhi grandi, occhi sgranati, curiosi e attenti, seri e sorridenti, occhi dolci e vigili di gatto, al primo impatto con i ragazzi Liceo Classico “Massimo D’Azeglio”, ho visto soprattutto occhi. All’inizio qualcuno ha confessato di sentirsi in soggezione e a me è venuto da ridere perché ero io a essere in soggezione, come L’arroseur arrosè, il primo film narrativo della storia del cinema, alla mia prima volta in una prima liceo, l’annaffiatore annaffiato, lo scrittore assoggettato da quegli sguardi che hanno l’età in cui si capisce e intuisce tutto e c’è fame e sete di sapere e tu non hai la più pallida idea se saprai nutrirli di qualcosa che possa essere loro utile. Ho pensato alla scrittura come a un’attitudine maieutica, levare e allevare le parole, anche quelle più restie a uscire dalla bocca dei più timidi, a quindici anni non è facile. Non sono salita in cattedra perché non è il mio lavoro né la mia predisposizione caratteriale. Non ho fatto alcuna lezione di letteratura, perché per quello ci sono i professori. Non ho fatto lezione di scrittura perché la prima lezione di scrittura non può essere altro che un semplice ma accorato invito a leggere. Ho provato ad accogliere le domande, i dubbi e le curiosità rispetto al mestiere di scrivere, che poi è un mestiere di vivere, se possibile, assecondando le proprie passioni. Ho cercato di essere un quaderno bianco sul quale fossero i ragazzi a immaginare lo svolgimento della piccola storia del nostro incontro. E a poco a poco ho scoperto di avere di fronte tanti scrittori, con idee sottopelle e timori sottotraccia e batticuori fuorilegge, e molto desiderio di raccontare. Abbiamo parlato del mio romanzo – L’età straniera – ma soprattutto di come sia importante farsi coraggio, e scrivere, e leggere, e cestinare e riprovare e avere pazienza e seguire un’idea che magari pare balzana ma che, probabilmente, proprio perché balzana, conterrà un mondo, nella misura di un racconto o di un romanzo, che nessun altro potrà scrivere per noi. Non c’è talento senza allenamento ma non c’è storia che non scaturisca da un po’ di temerarietà.

Una ragazza mi ha ringraziato per il romanzo che ho scritto, mi ha detto sai, non mi sono mai annoiata, l’ho letto-tutto-d’un-fiato, perché ho letto tutto […] e l’ho trovato noioso, tu non sei noiosa. E di nuovo a stupirmi perché nessuno mi aveva mai confessato in un orecchio di preferirmi a uno di quei grandi che tutti abbiamo letto a scuola (e vi giuro che non è Manzoni).

Un ragazzo, rispetto al mio libro, mi ha fatto la domanda più acuta che avessi mai ricevuto a riguardo: “Può un padre che si suicida, per quanto amato, essere un modello?”

Allora sì, ho pensato, scrivere serve, se certe questioni arrivano dritte al cuore di un giovanissimo lettore.

Ho chiesto loro di fare come Leo, il protagonista del mio romanzo, che scrive una lettera a se stesso tra trent’anni: chi ha avuto voglia l’ha letta in pubblico e mi sono meravigliata per la capacità, la serietà, l’intelligenza e la bellezza, qualcuno l’ha pubblicata sul blog, parole da abbracciare che fanno venire i lucciconi. Una ragazza l’ha ritenuta troppo intima per essere condivisa a voce alta, così ha detto, l’ho scritta e l’ho messa dietro a un quadro, la leggerò quando sarà il momento. La dolce arguzia di un gesto che è già l’incipit del romanzo della vita che verrà. L’importante è capovolgere il quadro che altri hanno già appeso per te, che sta in questo, forse, il senso della letteratura.

Marina Mander

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