Scrivo queste righe di ritorno dal mio secondo incontro con alcune donne ristrette al Carcere delle Vallette di Torino. Sono in treno e il cielo mi viene addosso screziato, un po’ biancastro e un po’ grigio tortora.

Chi entra in un carcere per una serie di incontri letterari può incorrere in due rischi di carattere opposto: l’uso delle “lenti rosa” — per cui è tutto bellissimo e commovente e risolutivo, le parole salvano, le storie salvano e così via — o usare un tono freddo e distaccato, quasi documentario. Entrambi ledono l’individualità delle persone che si incontrano e la complessità della loro situazione.

Credo sia più onesto partire dalle domande che mi sono posto prima di varcare la soglia delle Vallette: cosa posso fare per loro? Cosa può fare uno scrittore? E in particolare, uno scrittore che nutre diffidenza nel carcere come mezzo di riabilitazione?

Diciamo che avevo due obiettivi minimali. Il primo: discutere liberamente d’amore. E perché no? Si parla poco d’amore e quando lo si fa lo si fa abbastanza male, annegando nella retorica. Ho usato il mio ultimo romanzo come spunto e poi ho chiesto di scrivere qualcosa che riguardasse l’amore — nel senso più ampio possibile.

Il secondo: spiegare cos’è una storia e dare qualche tecnica di base per raccontarla, sollecitando tutte a inventare invece di scavare solo nella propria biografia. So che può sembrare controproducente. La scrittura è un ottimo mezzo per tirare fuori le contraddizioni che ci abitano e guardare con più chiarezza il proprio passato. Io però volevo qualcosa di più: stimolare la fiducia nell’immaginazione, in un luogo che mi pare mortificarla terribilmente, e dove forse ci si avvita fin troppo sulla propria storia. Immaginare per sgranchire il muscolo della speranza e dell’impegno.

Ovviamente oggi sono stato preso in contropiede e i racconti letti oggi erano già pieni di fantasia e invenzione. E sono venute fuori cose molto interessanti. Abbiamo ascoltato testimonianze di amore per la natura, pensieri per un figlio malato e lontano, ricordi di storie siciliane raccontate dai nonni, progetti per i nuovi racconti da scrivere, domande e dubbi sui finali — che sono sempre così difficili da trovare. Abbiamo letto un celebre raccontino di Frederic Brown, La sentinella. Abbiamo discusso di Cappuccetto rosso e delle versioni più truculente della fiaba di cui parla Neil Gaiman in Sandman (e di come potrebbe essere una Cappuccetto rosso oggi a Torino). Abbiamo parlato di quanta bellezza e quanto sapere contengono le fiabe e i racconti popolari, e dell’opportunità di scriverle per non vederle scomparire per sempre.

C’è stata grande attenzione da parte di tutte le donne presenti, e di questo le ringrazio molto. Avrò modo di farlo ancora durante il terzo incontro, quando finalmente leggeremo tutti i loro racconti e ne parleremo insieme. Le ringrazio anche perché quando si annoiavano e volevano fare un po’ di casino l’hanno fatto, e io ho capito che dovevo impegnarmi di più. Ad esempio: durante il primo incontro ho proposto un piccolo esercizio, apparentemente semplice ma in realtà piuttosto difficile: scrivere un racconto in sei parole. (Leggenda vuole che l’idea venga da una sfida vinta da Hemingway). Abbiamo commentato insieme alcune frasi: due ragazze hanno protestato dicendo che non avevo dato indicazioni chiare all’inizio. E in effetti è vero. Avrei dovuto essere più chiaro.

Non lo riporto per aneddotica o per indossare un istante le lenti rosa di cui parlavo all’inizio. Se c’è un senso alla frase abusata per cui “anch’io ho imparato molto mentre insegnavo”, è proprio questo: ho imparato che ogni secondo del mio tempo speso lì non può essere dato per scontato. Per me è un pezzetto sottratto a qualcosa che posso gestire come desidero; ma il tempo della detenzione è qualcosa di profondamente diverso. Ne parlava Maurizio Torchio in un suo bellissimo reportage dalla casa di reclusione di Bollate: “In carcere, in fin dei conti, non si prepara un reinserimento: si fa tempo, si pagano anni. Questo è il patto fra il carcere e la società: voi mi date i soldi — tanti — per funzionare, io produco tempo”.

Scrivo queste righe mentre il Frecciarossa mi riporta a Milano. Forse pioverà e forse no. Attorno a me ci sono quasi solo uomini d’affari che borbottano fra loro studiando fogli Excel, o mandano messaggi sul cellulare. Rifletto per l’ennesima volta sul nodo che stringe colpa e pena, e su cosa sia una giustizia giusta, e mille altri problemi su cui mi arrabatto da tempo senza venirne a capo. Poi ricordo: fra le storie in sei parole consegnate dalle donne ce n’era una che diceva più o meno così: “Questa punizione non è educativa; imbruttisce”. Non sarà una storia, ma esprimeva un pensiero comune: ed è un pensiero che può generare molte altre storie.

Giorgio Fontana

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