Ieri, giovedì 10 Marzo 2016, alle ore 20.45, Mario Perrotta ha messo in scena il racconto “Cugina K” di Khadra in esclusiva Thesis, Dedica festival, al convento di San Francesco.
Solitudine, rabbia, gelosia, silenzio, dolore e abbandono: sono questi i temi principali che emergono in “Cugina K” di Yasmina Khadra. Si può quasi definire una piccola tragedia greca, nella quale tutto ruota attorno al protagonista che si confronta con il resto del mondo, sentendosi, in questo caso, una nullità. Non è felice di se stesso, e dice perfino “marcivo nel mio letto di morte”. Non viene considerato da nessuno. Ben diversa è la sua situazione da quella del protagonista de “L’ultima notte del Rais”, in cui Gheddafi non è certo un uomo che nessuno conosce e che nessuno considera; anche nel momento in cui il suo potere si assottiglia sempre di più, tutto il mondo parla di lui.
Dopo un’infanzia difficile, segnata dalla morte del padre, e da una mancanza di affetto da parte della madre, il protagonista di “Cugina K” si interroga sul senso del bene e del male, tramite un alternarsi di ricordi dolorosi e difficili da affrontare. Terribile la scena della scoperta da parte del protagonista, ancora bambino, del corpo del padre appeso ad un gancio nella stalla. Mani pietose gli coprono gli occhi, ma ciò non serve ad impedire che qualcosa si rompa per sempre dentro di lui.
La cugina, di cui sappiamo solo l’iniziale del nome,”K”, è stupenda, ha degli occhi grandi e meravigliosi, ma un cuore duro: è senza scrupoli, è una serpe, falsa e sempre pronta a mentire; fa perfino smorfie assassine al protagonista dietro alle spalle della madre di quest’ultimo. Il suo sorriso è una trappola per lui, che non ha nessuna possibilità di sfuggirgli.
Un giorno il protagonista le confida che la cosa che gli farebbe più piacere in assoluto sarebbe ricevere una lettera, non importa da parte di chi, o da dove.. Vorrebbe solo una lettera. Non l’aprirebbe nemmeno, la terrebbe per ricordo. K lo prende per mano, cosa che lo riempie di gioia; ma poco dopo gli dice che lei gliene spedirebbe una bianca per fargli dispetto. Nonostante questo, ogni tanto il protagonista va a vedere Cugina K mentre dorme. Spesso la bacia, ma lei non se ne accorge a causa del suo sonno profondo.
Fin qui potrebbe sembrare la storia di un turbamento giovanile, di fragili speranze. Ma un giorno il protagonista spinge K in un pozzo, nel vuoto : gamba rotta, occhi sbarrati. L’oscurità la terrorizza. Lei non farà altro che uscire ed entrare dal manicomio.
In seguito incontra una fanciulla: è di nuovo K o no? Poco cambia, tanto per lui tutto il mondo è Cugina K. La porta in camera e la prega di mangiare la cena che lui le ha preparato. Lei gli ripete più volte di non avere fame. Il protagonista torna allora in camera sua. L’attesa qui è la sua condanna. Si sente prigioniero, non vuole dormire. La obbliga a bussare, continuando a dirle che non l’avrebbe disturbato. Lei alla fine bussa: lui le porta dell’acqua (nel tentativo di essere utile e importante per qualcuno almeno una volta), ma ad un certo punto la prende per le spalle… Lei cerca di scappare, dicendogli “Sei un pazzo”. Egli si sente ferito. Continua a pensare a quanto è bella, ma subito dopo prende il coltello e inizia a colpirla. Sente il suo braccio perfino slogarsi per la frenesia. Nel tempo rimane deluso dal fatto che nessuno sospetti di lui, che continua ad essere una nullità per tutti.
La capacità di Khadra e, nel caso del mise en espace, di Perrotta è quella di riuscire a coinvolgere il lettore e farlo immedesimare. La percezione del mondo del protagonista e quella di chi legge infatti, in tutte le opere dell’autore, vengono a coincidere.
“Cugina K” è un noir: nel racconto infatti non mancano le scene macabre, che Perrotta riesce ad interpretare in modo perfetto, mantenendo l’attenzione del pubblico sempre alta e conquistandosi infiniti applausi. Ma si può parlare anche di romanzo psicologico. La violenza e la solitudine sono sempre presenti. Non soffre per la morte del padre, ma dice di non perdonarlo. Si sente solo, ignorato dal mondo, non considerato, un “verme solitario”.. Lui non c’è per nessuno e nello stesso tempo ritiene lo sguardo degli altri come uno stupro. La sua notte è piena di fantasmi, si aggira per le stanze di casa come un spirito. Si sente un errore. Le persone, per lui, rosicchiano la loro parte di esistenza. Guarda dietro le tende della sua finestra le stagioni passare : autunno, inverno, primavera, estate..e poi ricominciano un’altra volta da capo. Lui non vive, esiste e basta.
Oltre alla sensazione di solitudine, si aggiunge anche quella di gelosia. Il protagonista non riesce a ricordare di aver mai visto sua madre sorridergli, o accarezzargli i capelli o baciargli la guancia, mentre è con Cugina K che la madre si intenerisce. Del resto la stessa madre è infelice, e aspetta con ansia il ritorno del figlio maggiore, il prediletto. Si tratta di un fratello da cui il protagonista ha imparato tanto, ma che avrebbe voluto conoscere meglio prima che partisse per la scuola dei cadetti (particolare in cui sicuramente sono presenti spunti della vita di Khadra). In confronto a lui si sente però inutile. Sua madre, infatti, non appena vede arrivare il figlio più grande urla “mio eroe”.
Da tutto ciò cova lentamente il male che porta alla disperazione più totale, tanto che alla fine dello spettacolo il protagonista dice: “Non avrei cambiato nulla.” Per lui è impossibile cambiare qualcosa, non ne è in grado, non può farlo. Non è abbastanza, non è nessuno.
Khadra riesce ancora una volta, attraverso immagini forti, ad aprire il cuore di tutti ed esplorare l’animo umano, un animo in questo caso preda di solitudine e ossessione per il passato.
Jessica Santarossa (4H Liceo M. Grigoletti, Pordenone)