Ho fatto l’insegnante solo per un anno, nel 2010/11, eppure qualcosa dev’essere rimasto depositato: nell’atrio sento una voce femminile chiamare “prof”, mi giro, non individuo un adulto nei paraggi e rispondo con un “dimmi pure”. Mi rendo conto della gaffe, la studentessa mi guarda spaesata e divertita. Ci cascherò ancora tre volte. Il professor Bovani mi dà il benvenuto, mi mostra la scuola con orgoglio: nell’aula di esercitazioni orchestrali gli occhi cercano subito i contrabbassisti, ma “ne abbiamo solo due in tutta la scuola, e oggi sono entrambi assenti”. Salgono i ricordi del conservatorio, ma siamo già in classe. I ragazzi tengono il libro in mano, due ragazze eseguono un reading accompagnandosi con la fisarmonica. Mi parlano dei personaggi di Dov’è casa mia, mi chiedono se esistono davvero e se davvero hanno sofferto così tanto, se non ho paura a fare il mio lavoro, quand’è che ho rischiato di più, se i miei genitori e amici sono preoccupati. Racconto della Sierra Leone e dell’Ebola, del sequestro da parte delle milizie curde, della volta in Sudan che forse mi volevano rapire ma non si è mai capito. Sono attenti, il brusio indica domande inespresse che poi trovano il modo di uscire allo scoperto. Spiego l’importanza di garantire l’accesso all’istruzione anche nel mezzo di una guerra o di una catastrofe naturale.
Qualche ragazza dice che vorrebbe scrivere, che ci sta già provando, che però non è sicura di riuscire a trovare la sua forma espressiva, che le parole e i pensieri si espandono sulla carta, da fiumi in piena diventano laghi, senza direzione, superfici immobili. Cito una regola che risale ad Aristotele, ovvero che una storia deve avere un inizio, uno svolgimento e una fine, c he sembra banale ma mi ha salvato dai miei laghi anni fa. Citiamo Salinger, Jacopo Ortis, biografie dei Queen, dei Guns’n’Roses e dei Led Zeppelin. Una ragazza – hey ho! – ha la maglietta dei Ramones. Uno studente dagli occhi sfuggenti si siede al pianoforte e suona (credo) Bach a memoria.
Poi torniamo all’attualità, cerchiamo di ricordare le guerre in corso e l’inconsueta pace che dura da 74 anni in Europa occidentale – riconosciamo che nella storia del mondo è un’eccezione e che non giustifica l’indifferenza per le sventure altrui. Mostro questo video, girato dall’organizzazione per cui ho lavorato per tre anni. Alcuni lo hanno già visto, ma l’effetto è sempre lo stesso. Mi chiedono se qualcuno mi ha mai attaccato per il mio lavoro e dico che no, ma noto negli ultimi anni dei silenzi di comodo, imbarazzati, da parte di persone che pensavo di conoscere molto meglio. Cosa si può fare? Parlare, raccontare, dare un volto a quelle persone ridotte a masse lontane e informi, trasformate in minacce.
Scorriamo le poche fotografie che ho scattato durante le mie missioni: la mia squadra di lavoro in Iraq e l’apertura della scuola, le baracche in Sierra Leone, la folla di bambini in Tanzania. Ci sono molti dei personaggi del libro in quelle foto, ma non li segnalo, non voglio che abbiano volti diversi da come i ragazzi li hanno immaginati.
Parliamo del potere terapeutico che la fantasia può avere in situazioni di emergenza o logoranti. Mostro questo video.
Chiedo loro di scrivere una lettera al personaggio che li ha colpiti di più, alcuni le leggono in classe, altri me le consegnano chiedendomi di tenerle per me. Sono ragazze a scrivere, scelgono quasi tutte Khalat o Anneke. Nelle lettere emerge la loro immedesimazione, con l’intensità che solo gli adolescenti possono avere.
Purtroppo l’ultimo dei nostri incontri finisce, io ripenso a una citazione di Hermann Hesse: “A casa non si arriva mai ma, laddove si incontrano sentieri amici, il mondo intero, per qualche istante, diventa casa nostra”.
Davide Coltri
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