Sedici, diciassette anni… Mi ricordo bene quando li avevo io, anche se da allora di anni ne sono passati quasi mille. Mi ricordo bene le certezze e le insicurezze, le dure difese e le improvvise aperture, gli adulti visti non più dal basso come quando  si era bambini ma di lato, di sguincio, o anzi, talvolta, dall’alto. Cosa che, per un verso, è giusta e naturale: avere ancora, come si dice, tutta la vita davanti è la massima delle ricchezze.

E’ in una classe di sedici/diciassettenni, una terza del Liceo Volta di Torino, che sono andata per tre incontri. Non sapevo se questi ragazzi sarebbero stati curiosi di me (gli era stata affibbiata questa attività dall’alto o l’avevano scelta loro? La vedevano soprattutto come un  modo per saltare qualche ora di lezione o erano almeno un po’ interessati?). L’unica certezza che avevo era di esserlo io, molto curiosa: di loro e di quello che avevano da dire.

Bene:  altroché se ne avevano, di cose da dire! Già dal primo incontro sono tornata a casa felice di aver visto una volta di più confermata la mia convinzione che i ragazzi, se appena gli si dà l’occasione di dire la loro, sono tanto più interessati, aperti, disponibili a conoscere cose nuove, ricchi di idee e sentimenti, di quanto voglia la vulgata dei media, così triste, rassegnata e, mi viene da dire, vecchia. Eppure non è che abbiamo parlato di cose da poco o leggere. Il mio ultimo romanzo tratta di temi non facili: il terrorismo degli anni ’70, le condizioni di vita nelle carceri, le relazioni dei detenuti con i parenti fuori, la colpa e la pena (e poi sì, certo, anche l’amore…). Nel primo incontro abbiamo tenuto come centro della discussione il romanzo, ma nel secondo e nel terzo l’abbiamo lasciato alle spalle e ci siamo imbarcati in discussioni a tutto campo su questi temi. Nel secondo incontro abbiamo praticamente fatto una lezione di storia: cos’è stato davvero il terrorismo in Italia? Le due ore a disposizione sono volate a parlare di cosucce da nulla quali la divisione in blocchi del mondo post-Yalta, la democrazia italiana incompiuta, la lotta armata, lo stragismo – e anche dei racconti di ciò che i loro genitori ricordano di quegli anni. Tra il secondo e il terzo incontro, poi, i ragazzi sono andati a visitare il museo delle Nuove, così l’incontro seguente è stato dedicato al tema carcerario. Anche qui, temi non da poco: la responsabilità individuale, la rieducazione dei detenuti, il senso dell’istituzione-carcere. La discussione è stata animatissima, partecipata, e in certi momenti c’è stato bisogno di districarsi tra le tante mani alzate per dare a tutti il modo di dire la propria. Ho avuto così il privilegio di osservare giovani menti al lavoro che cercano di dare un senso alla complessità del reale e costruirsi un sistema di valori. Ho osservato perfino quel piccolo miracolo chiamato ‘rivedere con spirito critico i propri pregiudizi’.

Alla fine ho chiesto loro se, dopo tanto teorizzare, avessero voglia di ascoltare le parole reali di chi in  un carcere ci sta scontando una lunga pena.

La campanella  di fine mattinata era già suonata, la fame sicuramente si faceva sentire. Eppure questi sedici-diciassettenni hanno ascoltato le parole di un detenuto – sul dolore di sua madre al saperlo assassino –  in assoluto silenzio.

Grazie, ragazzi.

Francesca Melandri

Francesca Melandri è stata adottata dal Liceo Scientifico Volta di Torino