“Al involved” (in italiano, “Giorni di fuoco”) è forse la più conosciuta delle opere di Ryan Gattis, 32enne scrittore americano, ospite giovedì sera alla Scuola Holden per la rassegna Salone Off 365. Il motivo ce lo spiega lui stesso: “Tra tutti i libri che ho scritto questo è il più legato al mio passato, pur non essendo un autobiografia; dentro c’è tutta la mia infanzia”. Ma, come lascia presagire il titolo, l’infanzia di Ryan non è stata tutta rose e fiori; anzi, non lo è stata per niente.
Ryan nasce in Illinois, ma ben presto si trasferisce in Colorado. I primi anni di vita dell’autore sono relativamente tranquilli, fino a quando, all’inizio degli anni ’90, tutto cambia. Gli anni ’90 sono, infatti, costellati da continue lotte intestine tra la popolazione nera e la polizia, che lasciano sul campo decine di morti. Ryan è fortemente colpito da queste vicende, prima sentite raccontare solo dalla televisione: vicende che man mano entrano a far parte del suo quotidiano, lo feriscono sia psicologicamente sia fisicamente, tanto che a 17 anni si rompe completamente il setto nasale e deve sopportare diversi interventi chirurgici per ricostruirlo completamente.
“Ciò che più mi ha spinto a scrivere questo libro – afferma lo scrittore – è stato, oltre al voler portare alla luce gli scontri fra gang avvenuti in quel periodo e spesso trascurati dai mass media, un episodio a cui ho assistito in prima persona: durante una delle purtroppo frequenti giornate di scontri, la rabbia e la tensione raggiunsero un livello talmente alto che i manifestanti bloccarono la strada principale del quartiere in cui vivevo, assaltarono un camionista alla guida del suo veicolo, lo buttarono giù dall’automezzo e lo picchiarono fin quasi a ucciderlo. E’ lì che ho deciso che questi fatti non potevano restare sconosciuti.”
La peculiarità principale di questo libro è la varietà di voci narranti, in totale 17, che raccontano dal loro punto di vista le vicende di quegli anni. “La prima cosa che mi rispondevano le persone quando cominciai a fare ricerche per il libro era che io non avrei potuto capire perché ero ero bianco. Non sarei stato in grado di capire cosa avevano subìto. Così cominciai a raccontare loro cosa io avevo passato. Raccontai del fatto che mi dovetti operare due volte per ricostruirmi la faccia, che dovetti stare ore e ore sotto i ferri. Vidi che pian piano queste persone capivano che non ero un turista e che non volevo mostrare la violenza per un inaudito gusto dell’orrido. Riuscii a entrare in contatto con la gente che andavo ad incontrare e riuscii a ricavare moltissimi dettagli di quel tempo, fondamentali per tenere il lettore attaccato al libro.”
Quintilla Berti e Luca Sardo, Liceo Classico Cavour di Torino
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