Hanno ventitré anni al massimo. Il più piccolo quattordici. Sono quasi tutti stranieri o Rom. Marocchini, più che altro. Arabi, zingari, un ivoriano che qualcuno chiama “Latte”. Un somalo, un egiziano, un paio di italiani. Hanno un’intelligenza sgusciante, hanno senso dell’umorismo, ma non sempre. Sono magri, ma non sempre. Ascoltano, ogni tanto qualcuno interviene, sempre di più man mano che passa il tempo. Ascoltano la trap. Litigano su Sfera Ebbasta, su cosa significhi essere un ragazzo di strada. Sanno che Ulisse aveva un cane che lo ha aspettato a lungo, e che ha acceccato un gigante con un occhio solo, e sono contenti, eccitati di farmi sapere che lo sanno. Dei libri, gli dico io, si può fare anche a meno. Quasi di tutto si può fare a meno. Tranne che dei caffè e delle sigarette, conveniamo.
Chiedo i loro nomi, non li capisco quasi mai al primo colpo, provo a ripeterli, li sbaglio. Sto diventando mezzo sordo, ho il raffreddore, le orecchie chiuse, i nomi non li capisco, o li pronuncio male. Alcuni parlano a bassa voce, alcuni tengono gli occhi bassi, ma la maggior parte di loro mi guarda, mi ascolta, mi segue. Mi ascoltano mentre parlo, mentre parlo io peso le parole, ogni singola parola, le parole mi sembrano macigni, sono macigni, lo sono sempre ma qua dentro lo sono di più. Io non sono un ragazzo di strada. Sfera Ebbasta non lo so, io di sicuro no. Non sono un ragazzo di strada, ma coi miei libri non farò mai abbastanza soldi da potermi permettere un Bmw da duecentomila euro, anzi da cenoventimila, anzi no. Litigano su questo. Su quanto è costato il Bmw di Sfera Ebbasta. Sul suo quartiere, su suo padre, su sua madre. Sua madre. Non ameremo mai nessuna donna come amiamo nostra madre: su questo sono tutti d’accordo.
Io non sono un ragazzo di strada, io scrivo libri, e scrivendoli non guadagno molti soldi, a dire il vero non guadagno pressoché niente. Non fumo sigarette, ma bevo caffè, ho un tatuaggio, due orecchini all’orecchio destro, e racconto storie. Anche le canzoni raccontano storie, anche i film. Non c’è bisogno dei libri, dico io, c’è bisogno delle storie. Non so se merito il loro rispetto, vorrei più di ogni altra cosa meritarmi il loro rispetto. Vengono da Torino, da Milano, da Modena, dal Sud, sono nati in Italia, sono nati in Marocco, sono nati in Romania, nell’Africa nera, hanno diciassette anni, ne hanno diciannove. “Se nasci qui e devi aspettare di compiere diciotto anni per avere la cittadinanza come fai a sentirti italiano?”, dice uno di loro. La cittadinanza per me non deve essere un premio, ma un diritto, e loro sono d’accordo. Non si prende coi punti della spesa, come le pentole alla Coop. Due punti se aiuti una vecchia ad attraversare la strada, cento se sventi un furto in un supermercato, un milione se salvi cinquanta ragazzini dalle mani di un pazzo. “Perché parliamo di cittadinanza? Non dovevamo parlare di libri?”. Certo, si possono anche innervosire. È che il mio libro parla di cittadinanza, è che il libri parlano di realtà, parlano del mondo. Ci pensano su, è vero. Però io lo so, che i libri alla fine rimangono pur sempre libri. Me la racconto sempre, la forza dei libri, e in fondo nonostante tutto lo so che esiste, che è vera. Vera. “A me non interessa se quella storia è successa o no al cantante che la canta, a me interessa che sia vera. Che ascoltando la canzone io senta che è vera”. Questa frase vale quanto un manuale di critica letteraria.
Due gruppi, due mattinate di seguito, in una Torino né calda né fredda, il tram da Porta Nuova, venti minuti e sono qua, al Ferrante Aporti, come la canzone di Vecchioni. Non hanno ancora letto il mio libro, i libri non sono arrivati ma arriveranno, tra una settimana io tornerò e i libri saranno arrivati e loro, o perlomeno alcuni di loro, li avranno letti, o perlomeno ne avranno lette delle parti. Poche nuvole, il cielo è celeste, le Alpi vicine, nere striate di bianco, è primavera da una settimana. “Juve merda” sui muri, “Salvini schifo” sui muri, “+Sbirri appesi. Anche i fasci” sui muri di via Po, la sera, quando passeggio dopo cena. Il Po è già enorme. Passa lento, e diventerà sterminato. Passo anch’io, mi fermo due giorni, due mattine, due ore, poi riparto. Non so cosa diventerò. Non sono un ragazzo di strada, ho scritto un libro che parla di africani, è un romanzo e racconta la piccola storia di quattro giovani africani che partono da Perugia e vanno al mare in un giorno di luglio e poi vogliono vedere la finale degli Europei e tifare contro la Francia o contro il Portogallo. Il calcio piace a tutti, col calcio in tre secondi hai già trovato il modo di farti capire. Se ci sono juventini me ne vado, dico, nel contratto avevo inserito questa condizione: niente juventini, o al Ferrante Aporti non ci vengo. Ridono, qualcuno.
Parlo, parlano. Parliamo. Ogni tanto qualcuno si alza, esce, rientra, una porta si apre, si affaccia una guardia, una guardia parla, ammonisce, le teste si abbassano, qualcuno risponde, io sto zitto, pratico un silenzio difficile, aspetto, ricomincio a parlare. Sono bambini. Sono uomini. Sono ragazzi di strada. Io che cosa sono, di preciso, a quarant’anni?
Loro fumano, io bevo caffè. Tre caffè alle undici di mattina, il cuore va troppo veloce, parlo con Roberto, Anna, Giovanni, Anna, le sedie non sono mai vuote, donne e uomini si siedono, ascoltano me, ascoltano loro, io vorrei meritarmi il loro rispetto. Io non vorrei annoiarli, non voglio annoiare la gente e non voglio annoiare certo loro, ci sento poco e allora mi alzo, mi avvicino, mi siedo sul banco, parliamo. Lui ha letto Oliver Twist, e ha visto il film di Oliver Twist, e gli sono piaciuti al punto che quando gli è nato un figlio lo ha chiamato Oliver. Ha ventitré anni, e sta in carcere, e ha un figlio che si chiama Oliver, per via di Oliver Twist. Sembra una storia finta. Invece è vera.
I libri, se sono buoni libri, sono veri. Come le canzoni. E possono servire, possono servirci a trovare un nome per nostro figlio, per esempio, perché il mondo è una faccenda complicata, bisogna scegliere in continuazione, qualsiasi cosa, e non è mai facile, perché per ogni cosa che scegli devi rinunciare a tutte le altre, a troppe altre: che università fare, che lavoro fare, che ragazza corteggiare, che nome dare a un figlio, che libro leggere, che strada prendere quando cammini per strada e potresti fare brutti incontri o trasformarti nel brutto incontro di qualcun altro, che libri leggere. Che libri scrivere. Se scrivere libri, se continuare a farlo, se smettere. Se mettere da parte i soldi per comprarti un Bmw, se rischiare di fare una cazzata sperando di non farti beccare, se scendere alla fermata Stati Uniti o a quella dopo, se mangiare una pizza, o un kebab, o una farinata, se fare un’altra cazzata, e un’altra, se decidere che fare cazzate ti piace, se bere una birra o una Pepsi, se parlare o stare zitto. Bisogna scegliere le parole da dire, una ad una. Qua dentro, però, non c’è molta scelta. “Non c’è scelta”, dicono. Vedi un film, fumi una sigaretta, parli, ti fai male, litighi, ti incazzi, piangi, mangi, ti lavi, vai al bagno, vai a lezione, impari a leggere e scrivere, prendi la terza media, prendi la maturità. Non è molto, ma è qualcosa. I graffi sulle braccia. I barattoli di colla requisiti. Parlare di te. Raccontare storie.
Io non lo so, se merito davvero il loro rispetto. Non so capire i loro nomi, o li dimentico, non so niente di loro. Perché sono qui, quanto ci rimarranno, non so niente del processo, dei processi, di chi li ha beccati, di chi li aspetta a casa, se hanno una casa, non conosco la loro lingua, le loro lingue, non so niente del loro passato e non so niente del loro futuro e non so niente, in pratica, del loro presente. Eppure vengo qua, da Perugia, ci metto sei ore, e parlo di libri, di storie, di musica, di cittadinanza, parlo di Africa, parlo di scelte e di parole. Non sono un ragazzo di strada, di sera passeggio lungo via Po e forse mangio un gelato o compro un libro usato, cerco di non inciampare sugli uomini involtati nelle loro coperte sotto i portici, ed è tutto quello che mi pare di poter fare: non inciampare, non andargli addosso. I ragazzi del Ferrante Aporti mi guardano, mi ascoltano, mi chiedono cose che non sempre so, ci provo, sono esausto, vorrei meritare il loro rispetto e vorrei essergli in qualche maniera utile, o perlemono non vorrei far danno, le parole sono macigni, i pensieri sono macigni, i libri sono macigni, non sono qua a insegnare come si usa un software o come si fa un piatto di ceramica, se parli di libri parli del mondo, e il mondo è un posto difficile e ingiusto, è un posto che può essere terribile.
A Torino non fa né caldo né freddo, la gente cammina ordinatamente, forse perché sono le stesse strade a essere così ordinate, dritte, ortoganali, piatte, e le piazze, non come a casa mia, dove è tutto storto e sghembo e si sale e si scende e si lotta col vento e il buio e ultimamente qualche fascista di troppo. A tutto ciò dovrò tornare, a tutto ciò sarò dovuto tornare. Anche Ulisse fece ritorno. Anche loro faranno ritorno. Presto, spero. Non so i loro nomi, non li ho capiti, ma so che prima o poi faranno ritorno, da Oliver, da Argo, ovunque che non sia qui. E a quel punto si metteranno a raccontare. Come me. Raccontare. Bene o male, è l’unica cosa che so fare.
Giovanni Dozzini
Perugia, 28 marzo 2019
Leggi anche i commenti dei ragazzi del Ferrante Aporti che hanno adottato Giovanni Dozzini
Leggi il resoconto di Luca, uno degli studenti del Ferrante Aporti che partecipa al progetto
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