Alessandro Leogrande che oggi, 27 novembre 2017 è scomparso improvvisamente, è stato adottato ad aprile 2017, dalla Casa di reclusione “Rodolfo Morandi” di Saluzzo e gli studenti ristretti hanno lavorato o insieme agli studenti de Liceo Artistico Soleri-Bertoni sempre a Saluzzo (Cn). Qui si seguito trovate i testi che gli studenti del Liceo Soleri e gli studenti ristretti hanno scritto. Anche i disegni sono loro. Grazie alla professoressa Rossella Scotta per l’immenso lavoro svolto. Qui sotto trovare anche i tre articoli che Alessandro Leogrande aveva scritto dopo ogni incontro. Non abbiamo parole: ciao Alessandro è stato un privilegio per tutti noi del progetto averti potuto incontrare. Buon viaggio.
Leggi il resoconto del primo incontro dello scrittore Alessandro Leogrande
Leggi il resoconto del secondo incontro dello scrittore Alessandro Leogrande
Leggi il resoconto del terzo incontro dello scrittore Alessandro Leogrande
Oggi, 30 novembre 2017, abbiamo ricevuto gli scritti che gli studenti di Alessandro hanno scritto dopo aver appreso la notizia della sua morte. Li pubblichiamo qui
100 EURO CHE GIRANO
Dal maestro Pietro Tartamella ci è stato letto a voce alta, in un modo esemplare e travolgente, un testo trovato su Internet (il cuore, più che la ragione, gli aveva suggerito che era pertinente al tema de La frontiera).
Questo testo infatti mi ha colpito molto, sia per come è stato letto, sia per il contenuto divertente, ma ancor più significativo. Ottimismo, semplicità, leggerezza secondo me sono la chiave di volta per capirlo. In questa nostra società frenetica siamo abituati a corse volte in un’unica direzione, infinite e spossanti, mosse dall’ unica volontà di vincere la gara. Qui invece c’è un movimento reciproco e circolare: con questi 100 euro nessuno ha prodotto né ha guadagnato, ma tutti hanno ottenuto un vantaggio e un insegnamento. Ognuno di quei personaggi ha liquidato i propri debiti e, anche se nulla è cambiato probabilmente nella forma, nella sostanza è che se tutti (noi per primi e poi chi governa il mondo) usassimo le nostre risorse per restituire onestamente i debiti, ne trarremo un vantaggio diverso, molto più importante di un vantaggio economico: vivremo serenamente con noi stessi e potremmo guardare al futuro con molto più ottimismo. Luca (studente ristretto)
Il re è nudo!
Nel corso di questi incontri con Alessandro Leogrande, autore de La Frontiera, abbiamo affrontato diversi argomenti: guerra, dittatura, segregazione razziale, esodo di massa, clandestinità, ingiustizia sociale ed altro; una varietà di problematiche in relazione alle quali ognuno di noi, in base alla personale sensibilità, anche culturale, ha offerto il proprio contributo.
Le informazioni offerte da questo scambio di opinioni, raccoltesi nella mia memoria, hanno più tardi suscitato in me una diversità di pensieri, ragionamenti e deduzioni, a dire il vero non sempre coerenti gli uni con le altre perché il problema è molto complesso; tuttavia, si sono infine radunate attorno ad una domanda di fondo: Cosa potrebbe fare ognuno di noi perché la frontiera divenisse un’opportunità anziché un limite? Una bella risposta è quella dei 100 euro che girano. Ma quello è un gioco che avrebbe bisogno della partecipazione anche dei Grandi.
La nostra potrebbe essere questa:
contestare e denunciare le manchevolezze e le ipocrisie della nostra società, a partire da quelle minimali, perché soltanto così è possibile ridurre il pericolo di essere intrappolati all’interno di una narrazione strumentale e, pertanto, di ritrovarsi ad aderire, più o meno consapevolmente, ad un’ideologia catastrofica come, ad esempio, quella che fa leva sulla paura del diverso, inteso tale magari solo per il differente colore della pelle, e dunque sul pregiudizio e sulla discriminazione dell’altro.
In conclusione, ognuno di noi può essere quel bambino che, a dispetto delle imposizioni sociali e della schiera di sudditi intenta a magnificare il bell’abito indossato dal sovrano, ha levato la propria voce palesando a tutti che in realtà il re era nudo, ricordando che laddove si rinunciasse a farlo non si potrebbe poi che attribuire a noi stessi la colpa della cecità di una società che si rende indifferente alla sofferenza altrui. Salvo (studente ristretto)
LA FRONTIERA
LA FRONTIERA (di Salvatore T. studente ristretto)
Dove Vai| Bella Fanciulla
Con Quei Pochi| Abiti
A Tracolla?
Vado| Fuggendo| Dalla Guerra
Che Mi Ha Costretta|
A Vivere Per Terra
Vado| Negandomi Alla Morte
Che Pare| Volermi
Alla Sua Corte
Vado| Cercando| Un Avvenire
Che Mi Porti| Lontano
Ma Senza Soffrire
E Sfidando |Andrò|
La Sorte
Sulle acque |Di Quel Mare|
Che E’ Crudele| E Tanto Forte
Salperò| Domani |A Tarda Sera
E Spiata| Dalla Luna
Viaggerò| Celata| In Una
Prigione Buia
Lì |Troverò Forse| Un Sorcio
Rosicare Le Mie Calze
Oppure| Una Brutta Avventura
Mi Scipperà
Della Mia Poca |Arte.
Ma| Non Avrò Paura,
No, Non Mi Dirò| Tradita
Perché Se Resterò| Nuda
O Non Avrò |Un’altra Vita
Mi Rimarrà Sempre | L’Illusione
Di Una| Traversata|
Colma Di Un Dolce Sogno|
Nato Una Mezza Sera:
Che Laggiù| Sbarcherò
Sulla Libera |Terra Straniera!
Dopo Aver Scavalcato| La Frontiera.
L’immigrazione è un fenomeno che si sta trasformando in odio razziale tra cittadini italiani e immigrati stessi. Essendo io migrante, l’ho vissuto tanto e visto tantissimo.
Ho dovuto e devo sempre difendere miei figli, moglie, fratelli e amici, in campo sportivo, scuola e perfino con vicini di casa. Personalmente sto vivendo in modo particolare brutto.
L’immigrazione sta dividendo molto anche i migranti. Da più di 25 anni vedo strade italiane piene di prostitute nigeriane: questa cosa causa mal modo di vedere tutte le donne con pelle scura, nera. Non c’è più rispetto per bambine, mogli o sorelle…basta che hanno la pelle nera: non c’è niente da fare…è solo una puttana. In campo sportivo sei soltanto un mangia-banane… I vicini di casa ti vedono come una minaccia in tutti i modi: se sei piccolo e vai a scuola sei porta-malattie, se cerchi di vivere onestamente sei un ruba-lavoro. E’ un momento brutto. Il razzismo è una brutta bestia e genera soltanto paura e male. Mhando A. S. (studente ristretto)
La frontiera
La frontiera è un libro che, oltre a colpirmi per la sua facilità di lettura, mi ha fatto capire che nella migrazione c’è tanta sofferenza. In quelle pagine si legge una verità, spesso descritta con particolari agghiaccianti, raccolta dalle bocche di ognuno di coloro che li hanno vissuti in prima persona. Non riesco nemmeno ad immaginare la fatica e lo sconvolgimento che avrà incontrato lo scrittore, non solo nello scriverlo, non solo per il tempo, ma per l’orrore ascoltato dal vero e con la difficoltà di farlo capire ad un lettore. In colloquio personale con lui gli ho fatto una semplice domanda: Come si sentiva dopo ogni racconto e se un qualcosa di questa esperienza lo avesse cambiato. Mi è bastato il suo sguardo e quel momento di riflessione che ha avuto per avere la mia risposta.
Sono tante la storie che mi hanno colpito, tra cui quella di due fratellini ai quali gli aguzzini chiedevano di scegliere essi stessi chi poteva fuggire e chi invece rimanere ed essere torturato. Non è il racconto di un film o di un romanzo, ma la cruda realtà del nostro millennio. Mi sono rimaste impresse le 28 Leggi da imparare a memoria, che insegnano a chi fugge, quasi fossero i Comandamenti biblici, le regole che devi scolpirti nella testa se vuoi tentare di sopravvivere nel viaggio della Speranza …
Voglio ringraziare Alessandro per avermi dato la possibilità di una lettura diversa del problema profughi. Io prima possedevo solo quella mediatica dei Nuovi sbarchi! Emergenza profughi! Il mio augurio è che questo libro possa essere letto da molti. Gianluca L. (studente ristretto)
Il Salone del Libro di Torino
Ascoltavo alla radio un’intervista del Ministro della Cultura Franceschini, il quale evidenziava l’importanza dell’ evento annuale che si svolge a Torino e sosteneva che il libro deve essere finanziato, come avviene per cinema e teatro.
Il mondo del libro apre autostrade di conoscenza e umanità…
Con Adotta uno scrittore ho avuto l’opportunità di porre domande a dei professionisti dello scrivere, di riflettere sulle tematiche inerenti i libri che di anno in anno ci sono stati proposti e, infine, di custodire i libri autografati degli scrittori “adottati”. Mi auguro di poter ancora incrementare questa mia piccola collezione. Paolo S. studente ristretto
Un’esperienza di formazione per tutti
Un’esperienza di formazione per tutti
Oggi si è concluso il ciclo di incontri con Alessandro Leogrande, autore de La Frontiera. Sono state tre intense giornate che hanno visto la partecipazione dello scrittore, dei docenti, degli studenti e dei detenuti, recentemente riqualificati dalla burocrazia illuminata come “residenti non volontari”. Decisiva, per un’ampia comprensione dei contenuti, è stata l’offerta culturale proposta dalla Scuola. La proiezione di quattro film basati sul tema del libro e mirate lezioni storico-filosofiche degli insegnanti ci hanno consentito di fruire più intensamente delle testimonianze personali dell’autore. Significative sono state le storie individuali portate dai detenuti africani e i contributi dei non europei con le conoscenze derivate dalle esperienze delle loro vite. Si è sviluppato un vivace dialogo, che ha spaziato in varie direzioni rendendo possibile una comprensione più che approfondita. Cercando una non facile sintesi, ciò che è emerso con più chiarezza è il generale deficit di conoscenza (=ignoranza) che genera pressappochismi, reazioni inadeguate, fraintendimenti e che offre il fianco a facili strumentalizzazioni. L’unica arma a disposizione di chi voglia comprendere il tema della migrazione è la conoscenza. Geografica, storica, culturale, etnica e politica. Senza tutto questo, le risposte ai problemi epocali che dovremo affrontare saranno inevitabilmente inefficaci e incongruenti e aggiungeranno solo altro disagio e altri problemi a quelli già presenti. Forse per i detenuti è stato un po’ più facile che per altri leggere con empatia le parole di Leogrande perché chi ha molto sofferto comprende le vie della sofferenza e per usare le parole dell’autore: “Tutti gli altri restano sempre a qualche metro di distanza, incapaci di afferrare il senso di ciò che viene detto”. Il carcere stesso è qualcosa al di là di una frontiera…chi è in carcere ne ha già attraversate molte e quando legge di “un solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni” sa di cosa si sta parlando. Nello stesso modo, non per affinità elettive, ma per dolore vissuto, noi detenuti siamo rimasti colpiti dalla franchezza e lucidità dell’autore quando descrive i CPT e i CIE, strutture paracarcerarie, destinate ai migranti. Si parla dello stesso mondo nel quale viviamo noi, nel quale “è abbruttito sia il recluso che il controllore”. Anche le cause di questo disastro sono evidenziate dall’autore quando parla di “impreparazione di chi gestisce, mancanza di fondi, incertezze legislative e giuridiche”.
Viene da sorridere amaramente pensando alla massima per la quale chi sa non può e chi può non sa o finge di non sapere per inconfessabili convenienze. Il dibattito si è anche spinto in contesti storicamente e geograficamente diversificati, analizzando i quali è emersa con chiarezza la ciclicità della Storia di manzoniana memoria, per cui il Bene e il Male sono eternamente connessi e contrapposti. Alla fine, e dopo aver saltato molti significativi passaggi per carenza di spazio e di tempo, si è prodotta una buona e onesta fotografia dei drammi umani connessi con le migrazioni, diverse tra loro, ma sempre comunque legate a violenze, politiche o economiche o semplicemente umane.
Volendo ancora usare le parole di Leogrande, “ciò che sgomenta è che, pur comprendendo pienamente le leggi che governano il nostro violento universo, non riusciamo ad arrestarle”.
Per realismo e onestà intellettuale dobbiamo riconoscere che salvare il mondo non era l’obiettivo di questi incontri, orientati invece alla conoscenza tra diverse componenti umane e sociali, alla presa di consapevolezza, alla formazione reciproca.
Questi traguardi sono stati ampiamente raggiunti e il nostro sincero ringraziamento va ad Alessandro Leogrande e a tutti i docenti che lo hanno reso possibile.Emi
TERRAFERMA
Per non sentirmi una semplice comparsa nei vari incontri di Adotta uno scrittore ho seguito con attenzione i film ed altrettanto attentamente ho letto il libro di Leogrande…
…di Terraferma, opera bellissima che consiglio a tutti, mi soffermo sulla scena in cui il fratellino più grande, figlio della donna nera appena arrivata dal mare, cerca di colpire o soffocare la sorellina appena nata. Il gesto è dettato dalla paura del prossimo incontro con il padre, che è in Italia da anni e li aspetta…aspetta la moglie e il loro unico figlio, nato prima della sua partenza e ormai cresciuto.
Il bambino sa che quella piccola innocente è un problema per la mamma, che dovrebbe giustificarsi con il marito. Ma quel fagotto si racconta da solo: è il frutto dei drammi e delle peripezie del viaggio, in cui i più deboli, oltre a rischiare la vita ad ogni passaggio come tutti gli altri, sono soggetti alle schifose violenze sessuali.
Tornando alla scena del film, la mamma, con un tono di voce malinconico e dolce, con due sole parole rassicura il figlio: papà capirà…
Antonino S. – studente ristretto
LAMERICA
Io sono Albanese. Per questo lo so io che per noi Albanesi Italia era cosa più bella del mondo. La dittatura non ti lasciava mai vivere…Questo film mi ricorda mia avventura per arrivare in Italia: anche io ho preso la nave Partizani…questa storia io la so troppo bene perché la ho vissuta con le mie spalle…io non scrivo più perché mi ricorda tutta la mia gioventù, che io vivevo al tempo del comunismo.
Professoressa, ti dico: una volta Italia per noi era dio, perché noi vedevamo tv italiana nascosta in casa. Vedevamo una vita bella qua in Italia. Per questo il titolo del film: per noi Albanesi Italia era America.
Grazie, Alessandro, che hai portato anche libro intitolato Il naufragio: ho letto tutta la notte…ma poi, l’ultima volta, sei arrivato con libro in lingua albanese…sono commosso. Silvio L. – studente ristretto
La gabbia dorata
La gabbia dorata è un film che ci è stato proposto per il progetto “Adotta uno scrittore 2017 al Morandi ”. Il film parla della migrazione di tre ragazzi, due guatemaltechi e un indio che, attraversando verso nord le frontiere con molte peripezie, vogliono raggiungere il sogno americano. Le scene che ci hanno colpito particolarmente sono state diverse, ma ci fermiamo su tre momenti per noi molto significativi.
Sono belle le scene in cui la ragazza guatemalteca, Sara, cerca di insegnare al’indio Chauk lo spagnolo. Tutto questo non è facile perché le due lingue sono completamente diverse. Non è però solo Chauk a imparare la nuova lingua, ma anche Sara inizia a prendere confidenza con alcune parole indie. Grazie a questi piccoli momenti, i due riescono a creare un rapporto tra adolescenti che va forse oltre la semplice amicizia. Juan, il ragazzo guatemalteco, è molto geloso del loro rapporto e infatti cerca in tutti i modi di allontanare Sara da Chauk. Secondo noi la figura femminile in questo gruppo è necessaria, perché Sara è più aperta e meno competitiva di Juan, va incontro allo “straniero”, è pronta a “calmare le acque” tra i due ragazzi quando tra di loro non c’è un buon rapporto.
Poi Sara scompare dalla storia…viene rapita da una banda: il futuro che sognava finisce in quel momento. I due ragazzi sono entrambi disperati, ma continuano a guardarsi con reciproco sospetto o paura.
Una scena cruciale del film è quella in cui Juan e Chauk, dopo essersi fidati della persona sbagliata, si ritrovano come ostaggi in una baracca insieme ad altre persone. Il trafficante ha diviso per gruppi tutte le persone che provengono dallo stesso paese, ma, dopo aver domandato a Juan la sua origine, scopre che è un guatemalteco proprio come lui. A questo punto, senza nemmeno avergli fatto del male, lo lascia inaspettatamente libero. Il ragazzo, ancora terrorizzato, scappa, ma dopo pochi minuti si accorge di non avere con sè l’unico amico che gli è rimasto, il ragazzo indio. Ritorna indietro e domanda al trafficante di liberare anche Chauk, ma egli risponde che non ha nessuna intenzione di cederlo perché gli sarà utile in futuro; alla fine li lascia liberi in cambio di tutto il denaro di Juan. Questa scena ci ha fatto capire che, nonostante il muro di pregiudizio che esisteva fin dall’ inizio della storia fra i due ragazzi, poiché Juan considerava inferiore Chauk a causa della sua etnia e non voleva viaggiare con lui, che si era unito agli altri solo per cercare di sopravvivere, una profonda solidarietà umana e una amicizia fatta di azioni e di sguardi si crea tra le loro solitudini nel corso del viaggio.
Infine una scena molto significativa è l’ultima, quando, arrivato come unico superstite nei “favolosi” Stati Uniti, Juan si ritrova a lavorare, sfruttato e sottopagato, in un orrendo mattatoio di animali: il suo sogno americano non si è avverato. La sua condizione di vita sembra ora ancora più grigia e dura, nonostante il lungo e pericolosissimo viaggio che ha visto soccombere i suoi due amici. Con grande tristezza abbiamo provato ad immedesimarci in lui, nella sua delusione e sconfitta: nel suo nuovo presente anche la speranza è morta.
Un film che ti fa immedesimare nella pelle di qualcun altro: un bel film.
Matilde, Michela e Vanessa – classe II L/B)
Lamerica
Un film di Gianni Amelio ( Italia, Francia 1994)
Tirana, nei mesi immediatamente successivi alla caduta del regime comunista. Un disonesto trafficante italiano, Fiore, con un suo giovane aiutante, Gino, arrivano nella capitale albanese con l’intenzione di costruire una fantomatica industria di calzature e usufruire così delle sovvenzioni statali dei due paesi; per costituire la società occorre però, per giustificare le sovvenzioni, che un albanese accetti di essere il presidente fantoccio, che non faccia altro che prestare la firma per i documenti necessari per il conseguimento delle varie autorizzazioni. Dopo laboriose ricerche in un ospizio di ex prigionieri politici, trovano un vecchio smemorato e ostinato nel suo silenzio, Spiro Tozai, che, dopo aver messo le prime firme, fugge. Gino lo insegue con il suo fuoristrada, e dopo aver attraversato villaggi sperduti assistendo a scene di incredibile miseria, lo ritrova in un ospedale, ma poi lo riperde. Fermatosi per telefonare e avvertire Fiore, trova al suo ritorno il suo furgone svaligiato e senza le quattro ruote. Non resta che tornare a Tirana. Ma lungo la strada Gino incontra il vecchio che, convinto ora con la persuasione ora con la prepotenza, comincia a parlare. Spiro, non è un albanese, ma un siciliano che aveva partecipato nel 1939 alla guerra d’Albania nei ranghi della Milizia, e che era stato condannato a cinquant’anni di carcere; ora – gli dice, in un lucido delirio in cui la distanza degli anni che sono e che furono appare cancellata dalla memoria distorta – sta tornando a casa, dove suo figlio, che è nato la sera stessa in cui egli è partito, senza che riuscisse a vederlo, avrà tre o quattro anni…A bordo di un camion, nel quale si ammassano decine di albanesi che sognano di emigrare in Italia, Gino vive una dura esperienza che gli apre finalmente gli occhi, facendogli comprender l’abiezione in cui è caduto. Arrivato nella capitale, viene arrestato. La truffa è stata scoperta, Fiore è tornato in Italia e se ne lava le mani. Gino, che è stato derubato anche del passaporto, non può che confessare e denunciare il mediatore albanese che li aveva introdotti nell’affare. Lasciato libero in attesa del processo, Gino sale a bordo del “Partizani”, una nave carica di più di duemila disperati, e ritrova il vecchio che, esausto e ormai fuori di senno, è persuaso che alla fine del viaggio vedrà l’America.
Un film sull’Italia non sull’Albania: Lamerica all’interno dell’opera di Amelio
Dopo Il ladro di bambini, Lamerica è il secondo film della trilogia che Amelio ha continuato con Così ridevano. Al momento della sua uscita il film non ebbe alcun successo e fu un disastro anche dal punto di vista economico, per le forti spese affrontate dopo aver dovuto fronteggiare mille difficoltà di carattere politico. Quando fu realizzato, il crollo del regime comunista era recentissimo e Amelio andò in Albania mentre ancora erano freschi i resti delle rivolte. Aveva subito capito che quello che era accaduto era di straordinario interesse narrativo, non per raccontare l’Albania, ma per raccontare l’Italia.
Com’era successo ne Il ladro di bambini con le case abusive e non finite di Reggio Calabria sullo sfondo, e come è stato per Così ridevano (premiato con il Leone d’oro a Venezia, proprio nel 1998), in Lamerica Amelio ha realizzato uno spaccato della società italiana, accostando con straordinaria lucidità critica le immagini, le illusioni, le speranze del passato a quelle del presente.
Nel film ci sono due generazioni a confronto: quella di Spiro Tozai-Michele Talarico, ventenne del ’30, e Gino, ventenne del ‘90. L’incontro-scontro tra i due personaggi è «lo scontro tra un’idea del popolo italiano come attivo, progressista e l’idea più reale di un popolo statico, spesso ipocrita di fronte ai grandi temi, affrontati con un occhio all’interesse personale falsamente supportato da motivazioni politiche». A distanza di sessant’anni, Michele e Gino rappresentano due facce di un’Italia diversa e sempre uguale a se stessa, coetanei di epoche diverse (ed è proprio questo che permette a loro di comunicare).
E’ vero che nel film c’è anche quella che Goffredo Fofi definisce «una straordinaria ricostruzione della caduta del comunismo, con uno sguardo profetico per ciò che poi è accaduto nei Balcani con la guerra in Kosovo»; la ricostruzione del dramma della fine dell’utopia comunista e delle indicibili condizioni di vita che essa ha prodotto, in cui serpeggia comunque la forza alienante di una altro mito – quello del benessere e dei consumi (una scena forte è quella della bambina che imita Raffaella Carrà, mentre gli altri la guardano compiaciuti e sognanti)- mutuato dalla televisione.
Il percorso di formazione di Gino
Gino alla fine, dopo le disavventure, cominciate sotto l’egida di un cinismo ben determinato (suo e di Fiore), nel meccanismo della storia recupera in un certo qual modo l’umanità. Lo fa quasi inconsapevolmente. In fondo anche quando provvede a sistemare Michele in una pensione, lo fa perché averlo dietro significherebbe assumersi una responsabilità troppo grande; in fondo quando lo cerca e quando il vecchio inizia a fidarsi di lui, mostrandogli quella solidarietà che “si usa coi paesani”, non comprende, non accetta.
«Gino è un po’ ignorante – ha detto Amelio – e la sua ignoranza può essere cancellata solo con un’esperienza fisica attraverso i sentieri del bisogno, trovandosi in un posto dove qualcuno dà valore ad un pezzo di pane». Grazie anche al rapporto col vecchio, che è sì smemorato, ma non ha dimenticato le speranze e le sofferenze degli emigranti della sua gente e ha ancora ben saldi in sé i valori antichi (la moglie abbandonata per il servizio militare, il figlio «che avrà tre o quattro anni», l’ospitalità che darà a Gino quando arriveranno in Sicilia), paradossalmente attraverso la sua visione distorta della realtà, Gino recupererà con la realtà stessa contatti autentici.
«L’esperienza dell’Albania – scrive Salvatore Gugliemino – che Gino ha fatto all’inizio per i suoi loschi progetti si risolve, attraverso il dialogo con il vecchio, in un viaggio di iniziazione interiore, e nella parte finale del film – che è un susseguirsi di volti in primo piano nei quali si leggono sofferenza, timori, speranze: dieci minuti di grande cinema – il suo volto e il suo silenzio ne danno testimonianza».
La gabbia dorata - La Jaula de Oro
Un film di Diego Quemada-Diez (Messico, 2013)
Tre adolescenti guatemaltechi, Juan, Sara e Samuel, cercano di raggiungere gli Stati Uniti d’America per inseguire il sogno di un’altra vita, lontano dalla povertà in cui sono cresciuti. Alla frontiera, dopo il primo scontro con gli agenti, Samuel tornerà a casa, mentre Juan e Sara, cui si è aggiunto Chauk, un indio del Chiapas che non parla lo spagnolo, andranno avanti. Il loro sarà un percorso pieno di insidie, un cammino nella disperazione, contro tutto e tutti.
Al centro dell’opera prima di Diego Quemada-Díez c’è il concetto di frontiera. Intesa come limite e separazione, linea immaginaria che separa i ricchi dai poveri, terre economicamente sviluppate da altre ferme sotto il giogo di una grande arretratezza. Un confine da aggirare, navigando su corsi d’acqua, strisciando in angusti cunicoli, camminando sulle rotaie di una ferrovia che dovrebbe portare al progresso, ad una realtà migliore, almeno sulla carta. Il viaggio di Juan, Sara e Chauk è quello di tutti i migranti, di uomini alla ricerca di un luogo solo concettualmente distante in cui giocarsi la possibilità di essere diversi da quello che la geografia ha scelto per loro alla nascita. Nonostante la chiarezza delle riflessioni su cui si sviluppa, La gabbia dorata non è un’opera a tesi, realizzata esclusivamente per evidenziare uno scottante problema geopolitico, ma un film in cui le tematiche affrontate aderiscono alla linea narrativa, al respiro del racconto, allo sviluppo dei personaggi. Già dalla scelta di girare in Super 16, risulta chiara la volontà di avvicinarsi a una vibrazione dell’immagine d’impianto documentario oppure, ancor meglio, a una ricostruzione affidabile di una storia che ne racchiude mille altre simili, tutte autentiche. Dentro a una rigorosa organizzazione degli spazi, restituita da una direzione artistica secca e severa, si muovono tre attori adolescenti coi quali lo spettatore instaura subito una forte empatia: anche le evoluzioni dei loro rapporti, dall’iniziale avversità che il risoluto Juan prova verso Chauk fino al totale ribaltamento, stanno a sottolineare l’importanza della condivisione, della solidarietà, il falso mito dell’individualismo. Esordio riuscito e maturo, forse un po’ troppo compiuto e definito nella sua misura di vero e falso, è il lavoro di un regista che sa benissimo come muoversi all’interno di un idea di cinema molto precisa. Non per niente, Diego Quemada-Díez ha maturato un’esperienza ventennale accanto a nomi come Ken Loach, Oliver Stone, Alejandro González Iñárritu e Fernando Meirelles.
Esistono film belli, film importanti e film necessari. Per chi li fa e per chi li vede. Trovarne uno che combini questi tre elementi è ormai un evento più unico che raro e, quando capita, gli occhi abituati a visioni ripetitive si spalancano attenti e si riaccende la passione sopita per un mezzo in grado di aprirci una finestra sulla condizione umana. Per fare un film del genere non basta il talento, ci vuole la sincerità e la passione del narratore.
E’ questo il caso di La gabbia dorata, possente debutto al lungometraggio di Diego Quemada-Diez, un giovane cineasta spagnolo che si è fatto le ossa come assistente di Ken Loach e in ruoli di contorno nel cinema hollywoodiano, e che per anni ha perseguito un sogno: raccontare una storia sulle centinaia di migliaia di persone che quotidianamente salgono sui tetti dei treni merci che attraversano il continente latino-americano, per sfuggire a una vita di miseria, in cerca di una speranza nella terra delle opportunità, gli Stati Uniti.
Nella difficilissima ricerca di finanziamenti per un film che nessuno voleva, il regista ha raccolto le storie vere di centinaia di persone, ha vissuto in casa loro e ha frequentato i ghetti più pericolosi del mondo, rischiando a volte la vita. Consapevole della forza evocativa di una storia che si è riproposta con poche varianti nel corso dei secoli, raccontata dal cinema con un’epicità codificata in generi come il western e l’avventura, Quemada-Diez ha scelto di potenziarne il realismo contaminandolo con la finzione, senza paura di evocare il fantasma di John Ford o di altri eploratori del confine.
La gabbia dorata è un film che sfata il mito della frontiera mostrandoci il muro su cui si infrangono i sogni e le speranze che spingono tanta gente ad affrontare un viaggio denso di insidie, attraverso paesi dove la miseria ha favorito la nascita di spietati trafficanti d’uomini e dove la vita umana, soprattutto femminile, non conta niente. Nel film c’è tutto quello che ruota intorno alla tragedia dell’immigrazione clandestina in quei paesi: la sorte delle donne, vittime di elezione in una società criminale e maschilista (impossibile non pensare alle oltre 400 ragazze massacrate nell’impunità a Ciudad Suarez, in Messico), la cultura india ormai quasi perduta, i migranti che si ammassano sui treni, le tappe forzate lungo il cammino, dove pochi sprazzi di lavoro e solidarietà si alternano alle razzie dei criminali e dei narcotrafficanti.
Sono tutte storie vere, rese ancora più forti e toccanti dalla poesia che si sprigiona dai volti e dalle voci degli adolescenti protagonisti, le cui avventure lo spettatore segue col fiato in gola, immesimandosi in un dramma che in televisione lo tocca solo il tempo necessario per fargli esprimere la propria indignazione sui social media, prima di passare ad altro. In questo senso Quemada-Diez ha appreso e superato la lezione del suo maestro Ken Loach, togliendo alla sua narrazione qualsiasi sovrastruttura ideologica e coinvolgendosi/ci da essere umano, invece che politico e intellettuale.
Il sogno di una vita migliore finisce per molti nella realtà di un’orribile fabbrica per la lavorazione delle carni, ma la cosa veramente importante è partire, perché, se “l’emigrazione è legge di natura” ( la frase del vescovo missionario Giovanni Battista Scalabrini, apposta dal regista a suggello del film), opporvisi spezzerà solo la cresta dell’onda ma non fermerà la marea. Il viaggio, qualunque ne sia l’esito, è una scelta di vita, contrapposta alla morte sicura dell’anima e del corpo.
Terraferma
Un film di Emanuele Crialese (Italia 2011)
E’ la storia di un’isola siciliana, di pescatori, quasi intatta. Appena lambita dal turismo, che pure comincia a modificare comportamenti e mentalità degli isolani. E al tempo stesso investita dagli arrivi dei clandestini, e dalla regola nuova del respingimento: la negazione stessa della cultura del mare, che obbliga al soccorso. Una famiglia di pescatori con al centro un vecchio di grande autorità, una giovane donna che non vuole rinunciare a vivere una vita migliore e un ragazzo che, nella confusione, cerca la sua strada morale. Tutti messi di fronte a una decisione da prendere, che segnerà la loro vita. Terraferma è un film di confini, quello fra il mare e il continente, fra un lavoro antico come la pesca e le sirene della modernità, fra le leggi del mare e quelle scritte dagli uomini. Fatto di orizzonti, di luci lontane nel mare che per i disperati che cercano di attraversarlo verso nord sembrano fari di speranza, ma si dimostrano spietate illusioni.
In un’isola siciliana una famiglia di pescatori è alle prese con la crisi della pesca, divisa fra chi vuole aprirsi alla modernità e lavora con i turisti e chi vorrebbe che le cose non cambiassero mai. Nel frattempo continuano ad arrivare clandestini. Una donna africana col figlio viene salvata dal peschereccio e nascosta in casa.
Un film che cerca e raggiunge la semplicità, scrosta via sovrastrutture e complessità ciniche della società contemporanea per far risaltare gli elementi base dell’uomo, il suo rapporto con l’altro, la natura, le tradizioni. Un po’ puro e un po’ spietato è un mondo in cui le leggi del mare sono in conflitto ormai con quelle scritte e imposte da chi viene da lontano, da chi non vive in un mare ormai privo di pesci, ma pieno di uomini disperati. Un mondo in contrasto fra chi viene dalla terraferma per turismo e porta ricchezza e chi arriva alla ricerca di una nuova vita, verso un nuovo mondo. In fondo sono sempre uomini, spogliati di tutto diventano confondibili, tanto che la consueta immagine di un barcone strapieno di immigrati in mezzo al mare che spuntano ovunque e si buttano, qui diventa quella di un gruppo di turisti che ballano e cantano in una delle tante immagini forti che rimangono impresse in Terraferma.
Quando si parla di immigrazione si rischia spesso il politicamente corretto o il suo opposto: qui il film arriva all’essenza del rapporto fra gli uomini, quasi primordiale, quello che segue l’istinto di porgere la mano all’altro in difficoltà, ad aiutarlo, a rispettare le leggi del mare.
Qui non si fugge dalla Sicilia come in Nuovomondo (2006), ma si ha a che fare con chi fugge, con l’accoglienza di chi arriva. Ma Terraferma è soprattutto un film su un microcosmo che si ribella ad un mondo che cambia istericamente, spesso senza riflettere.
Qualcuno abuserà del termine buonismo (parola mai troppo odiata) per una vicenda che piuttosto ha il grande merito della semplicità, come quella di due donne, senza uomini per motivi diversi, una vedova isolana e una africana arrivata con il figlio. Un rapporto fatto di sguardi, diffidenza, rispetto, che diventa il vero nucleo emotivo del film, con la donna che custodisce il focolare, segna il territorio, ma lo apre anche all’accoglienza. La dimostrazione di come si possa fare del buon cinema anche senza una storia troppo originale.
Fuocoammare
Un film di Gianfranco Rosi (Italia, Francia 2016)
Gianfranco Rosi racconta Lampedusa attraverso la storia di Samuele, un ragazzino che va a scuola, ama tirare sassi con la fionda che si è costruito e andare a caccia di uccelli. Preferisce giocare sulla terraferma anche se tutto, attorno a lui, parla di mare e di quelle migliaia di donne, uomini e bambini che quel mare, negli ultimi vent’anni, hanno cercato di attraversarlo alla ricerca di una vita degna di questo nome trovandovi spesso, troppo spesso, la morte. Per comprendere appieno un film di Gianfranco Rosi è prioritariamente indispensabile liberarsi da una sovrastruttura mentale alla quale molti hanno finito con l’aderire passivamente e in modo quasi inconscio ed indolore. Si tratta del format dell’inchiesta giornalistico-televisiva che si concretizza in immagini scioccanti, in interviste più o meno interessanti finalizzate a un impianto (in particolare sulla tematica delle migrazioni) ideologicamente preconfezionato. O si è pro o si è contro la presa in carico del fenomeno e su questa base si costruisce la narrazione. Rosi si allontana in maniera netta da quanto descritto sopra a partire dalla scelta, fondamentale, di aborrire il cosiddetto documentario ‘mordi e e fuggi’ che vede la troupe giungere sul luogo, pretendere di capire in fretta o comunque di mettere in ordine i propri pregiudizi e ripartire quando pensa di ‘avere abbastanza materiale’. Il regista è rimasto per un anno a Lampedusa entrando così realmente nei ritmi di un microcosmo a cui voleva rendere una testimonianza assolutamente onesta. Samuele è un ragazzino con l’apparente sicurezza e con le paure e il bisogno di capire e conoscere tipici di ogni preadolescente. Con lui e con la sua famiglia entriamo nella quotidianità delle vite di chi abita un luogo che è, per comoda definizione, costantemente in emergenza. Grazie a lui e al suo ‘occhio pigro’, che ha bisogno di rieducazione per prendere a vedere sfruttando tutte le sue potenzialità, ci viene ricordato di quante poche diottrie sia dotato lo sguardo di un’Europa incapace di rivolgersi al fenomeno della migrazione se non con l’ottica di un Fagin dickensiano che apre o chiude le frontiere secondo il proprio tornaconto. Samuele non incontra mai i migranti. A farlo è invece il dottor Bartolo, unico medico di Lampedusa costretto dalla propria professione a constatare i decessi, ma capace di non trasformare tutto ciò, da decine d’anni, in una macabra routine, conservando intatto il senso di un’incancellabile partecipazione. Rosi non cerca mai il colpo basso, neppure quando ci mostra situazioni al limite. La sua camera inquadra vita e morte senza alcun compiacimento estetizzante ma con la consapevolezza che, come ricordava Thomas Merton, nessun uomo è un’isola e nessuna Isola, oggi, è come Lampedusa.
Alla vigilia degli Oscar si era raccomandato: “Se perdo domenica non parlate di delusione, non lo sarà. Tutto questo è già un successo”. Gianfranco Rosi in effetti l’impresa l’ha compiuta portando Lampedusa e il suo grido di dolore in cinquina, più di cinquant’anni dopo l’unico altro documentario italiano ad essere andato tanto lontano La grande Olimpiade, regia di Romolo Marcellini nel 1962 e pazienza quindi se la statuetta poi non è arrivata tra le sua mani nella notte più importante della storia del cinema. “Felicissimo di questo meraviglioso viaggio durato un anno incredibile. Il film documentario ha finalmente assunto un valore universale” ha detto Rosi alla fine della cerimonia.
Fuocoammare
Pochi giorni prima della visione di Fuocoammare, mi è capitato di imbattermi in una trasmissione televisiva che, segnalando tra l’altro la sua nomination a un importante premio cinematografico, ne decantava, con evidente partecipazione, la regia, tanto da convincermi che avrei presto contemplato un filmato dotato di una straordinaria immediatezza espressiva e comunicativa… invece, mentre le immagini di questo documentario scorrevano sul televisore, ero meravigliato dalla mia insolita difficoltà a sentirmi coinvolto.
A mio avviso, la combinazione di una congiuntura temporale, politica e soprattutto mediatica favorevole, ha cucito addosso a questo documentario un abito di eccellenza, il quale, pur rimanendo soltanto nella immaginazione di chi lo aveva così pubblicizzato, è riuscito a sedurre un vasto pubblico, me compreso, parte del quale, poi, per acquiescenza, per timore di risultare inopportuno o unicamente per partito preso, ha continuato a tesserne, in modo esagerato, le lodi… Forse dovrei rivederlo una seconda volta, ma non ne ho molta voglia, perché l’eccessiva lentezza (certamente rispondente alle intenzioni comunicative del regista) mi respinge.
Salvo, studente ristretto
Alfateh e Ibrahim
Alfateh e Ibrahim sono due detenuti sudanesi, coimputati e compagni di cella.
Ibrahim frequenta la classe prima del Liceo Artistico Soleri-Bertoni.
La loro è una testimonianza sul tema de La Frontiera raccolta e messa per iscritto dai compagni della scuola ristretta.
Nel corso di Adotta uno scrittore i testi sono stati letti a voce alta da Pietro Tartamella (Associazione di Promozione Sociale Cascina Macondo – Scuola di Dizione, Centro Nazionale per la Promozione della Lettura Creativa ad Alta Voce e Poetica Haiku).
Mi chiamo Alfateh: vengo da una numerosa famiglia sudanese. Sono il penultimo di tredici figli. Mio padre è morto quando avevo nove anni. La mia infanzia si snoda lungo un itinerario attraversato dalla carestia, dalla feroce dittatura del colonnello Omar al-Bashir e dalla guerra civile che dal 1989 e per oltre un decennio ha funestato il mio Paese… in Sudan ho frequentato la scuola primaria e, a tredici anni, iniziato a imparare il mestiere di meccanico. Ho svolto questa occupazione finché, un giorno, mentre tornavo a casa, con ancora addosso la tuta da lavoro, fui prelevato a forza dalla milizia di Al Bashir e condotto a Khartoum: qui ebbe inizio la mia vita da soldato. Per dodici mesi fui addestrato all’uso delle armi e alla tecnica militare, dopodiché venni trasferito a Rumbek , nel Sud Sudan, ovvero al fronte: solo allora i capi dell’esercito ritennero opportuno informare la mia famiglia che la mia sparizione aveva questa ragione di fondo…
Mi chiamo Alfateh: ed ho vissuto le atrocità di una guerra fratricida. Una sera di settembre, mentre, con una squadra di commilitoni, ero intento a recuperare un camion situato nella periferia di Rumbek, l’esplosione di una mina tornò a seminare il panico e la morte tra le nostre fila. L’onda d’urto mi scaraventò sulla strada: per alcuni interminabili istanti i miei polmoni si rifiutarono di ricevere ossigeno. Intanto le grida di dolore dei compagni trafitti dalle schegge rintronavano nelle mie orecchie. Mi sollevai sulle gambe e, volgendo lo sguardo intorno a me , scorsi un soldato che, con le mani infilate tra i capelli, urlava frasi sconnesse e correva avanti e indietro, senza una meta precisa, senza uno scopo, senza ragione… proprio questa le era venuta meno. Per sedare la sua follia, fui costretto a legarlo con una corda. Seguito da quest’ultimo e issatomi sulle spalle un soldato ferito gravemente, rientrai alla base: l’esercito per questo mi premiò e mi promosse di grado.
Mi chiamo Alfateh: per un anno e mezzo ho combattuto contro i miei fratelli per ordine di Omar al-Bashir, un uomo malvagio che ha ucciso le nostre speranze. Durante un giro di perlustrazione nelle campagne di Numoli, teso a ricercare alcuni ribelli rifugiatisi in quegli anfratti, subimmo un’imboscata, che si trasformò in un assedio di oltre di due mesi: l’esercito al quale appartenevo, dopo il primo mese ci paracadutò un pacco di cibo, scaduto da quindici anni, e delle munizioni che risultarono inutilizzabili. Per sopravvivere a quell’attesa e alla fame fummo costretti a bollire e mangiare le nostre scarpe di cuoio. Uscito salvo da quell’assedio, che logorò le mie forze mentali ancora prima che quelle fisiche, mi spogliai della divisa, rifiutandomi da quel momento di continuare a combattere. Fui accusato e arrestato per tradimento. Fui condotto in una prigione militare. Una struttura in cemento armato, costruita sottoterra durante il colonialismo anglo-egiziano: fui calato al suo interno con una fune, attraverso una fessura nel terreno, dalla quale, a giorni alterni, ci era rovesciato del cibo… in quelle occasioni, per le decine di persone, come me, detenute dentro quella tomba, continuava la lotta per sopravvivere agli stenti e alla fame. I più deboli, non riuscendo ad conquistarsi quella porzione di cibo, erano i primi a morire.
Mi chiamo Alfateh: sono stato segregato dentro un buca, per tre mesi. Tuttavia, con l’aiuto di un mio parente, un militare graduato, e l’occasione offerta da un mio trasferimento al tribunale di Khartoum , mi fu possibile evadere da quell’inferno. Da Port Sudan presi il mare per l’Egitto e, valicati i confini con la Libia, raggiunsi Tripoli. Qui, trovato lavoro come meccanico, rimasi a vivere finché, tredici anni più tardi, sotto il regime del colonnello Muammar Gheddafi, non si aprirono le ostilità del governo libico con i subsahariani. Ancora una volta fui costretto a fuggire e, raggiunta Zuara, a imbarcarmi su una carretta del mare, assieme ad altri ottanta disperati. Tre giorni di mare senz’acqua e senza cibo, prima di cadere tutti addormentati per lo sfinimento. A ridestarci provvide la collisione con un peschereccio e la grande falla che si aprì nello scafo. Per evitare l’affondamento la tamponammo spogliandoci delle nostre magliette. Alcuni di noi si dovettero minacciare con un coltello perché lo facessero. Ma, assieme al pantaloncino che indossavano, era il loro unico avere. Avvistammo poi, finalmente, Lampedusa, che rimanemmo a fissare per otto lunghe ore, prima che la guardia costiera ci raggiungesse e ci trainasse nel suo porto. Con in tasca il foglio di via obbligatorio notificatomi dalla polizia di Agrigento, mi recai a Palermo, poi a Roma e quindi a Bari, dove presentai richiesta dello status di rifugiato politico. L’ottenni l’anno successivo.
Mi chiamo Alfateh: ho attraversato il Mediterraneo su d’una a barca e raggiunto l’Italia, senza conoscere affatto la sua lingua. Eppure, a Roma ho fatto il meccanico, a Foggia il raccoglitore di pomodori, a Udine il saldatore, a Schio il lucidatore di metalli, a Milano di nuovo il meccanico, ma anche il muratore, il facchino e ancora altri lavori. Ho lavorato per anni, ho sempre lavorato. Nel 2007 mi sono sposato, nel 2008 è nata mia figlia. La vita trascorreva serena, nonostante l’ombra del passato. Un giorno, nel 2009, fui però arrestato con l’accusa di aver sequestrato una persona, per ottenere un riscatto, che dicono pari a 400 euro. Per condannarmi fu sufficiente l’arbitraria interpretazione di un’intercettazione telefonica.
Mi chiamo Alfateh: ho sempre lottato per vivere serenamente, ma, prima la dittatura e la guerriglia, la fame e la disperazione poi l’ingiustizia penale, me lo hanno impedito. La cattiveria di una parte del mondo ha deciso per me: ha deciso che fossi un orfano, un disagiato, poi un soldato, un eroe, quindi un traditore, un prigioniero, e, ancora, un clandestino, un rifugiato… e infine un criminale: di tutto questo però non sono mai stato e mai sarò un criminale.
Mi chiamo Ibrahim e sono nato in Sudan. Il mio paese, come del resto l’intero continente africano, ha subito un feroce e spietato colonialismo ad opera di quelle potenze europee che, affamate di materie prime e di potere geopolitico, quindi per nutrire le loro glorie nazionali, decisero di depredare altri popoli, incuranti delle tragiche conseguenze. Gli effetti di questa politica imperialista si stanno ora ripercuotendo come un naturale boomerang sul vecchio continente. L’inaudita violenza dei regimi dittatoriali che sfocia in torture e assassinii, associata alla corruzione che genera fame e disperazione, spinge intere popolazioni a cercare altrove un’ancora di salvezza.
Il prezioso libro di Alessandro Leogrande mi ha costretto a frugare nei cassetti della mia memoria, in cui sono incastonate infinite storie, facendo riaffiorare la tragicità delle dis-avventure che ho vissuto e che, pur a distanza di anni, mi scuotono l’animo e mi tolgono il sonno.
Le peripezie da me vissute non sono dissimili da quelle vissute da Hamid, Gabriel o Shorsh dei quali narrano le pagine di “La frontiera”. Storie di fughe dal terrore e dalla morte dentro cui, accanto ad esempi di valoroso eroismo, ne affiorano altri di infinita viltà, dove il lato bestiale dell’uomo prende il sopravvento e fa compiere azioni che il cuore umano, in altre circostanze, ripudierebbe.
Ho vissuto per tre anni in Libia, lavorando nella fattorie, dove si guadagnavano mediamente duecento euro al mese, ma, nel momento in cui il colonnello Gheddafi aprì le frontiere a tutti i popoli dell’Africa, il mondo del lavoro, in quella Libia invasa da milioni di disperati, subì un’enorme inflazione, ed io, di punto in bianco, mi ritrovai disoccupato.
Nelle stesso tempo il regime di Muammar Gheddafi creava delle milizie armate formate soprattutto da Sudanesi che venivano spediti a combattere proprio in Sudan, contro il regime dittatoriale del colonnello Al Bashir. L’intento dei Libici era quello di spaccare il Sudan in due e creare pertanto nella regione del Darfur un paese autonomo (un progetto che si realizzò successivamente con l’aiuto degli Usa): ebbene, una delle conseguenze a dir poco paradossali di questa strategia militare di Muammar Gheddafii fu quella che vide la milizia Al Bashir incarcerare, torturare e uccidere – perché accusati in modo indiscriminato di aver fatto parte della milizia organizzata dai Libici per rovesciare il regime – quei Sudanesi che rientravano man mano in patria dalla Libia. Per questo motivo, cioè per evitare di subire la stessa tragica sorte toccata a questi miei connazionali, optai a malincuore di intraprendere la temeraria e rischiosa traversata del Mediterraneo.
Dopo tre giorni di avventuroso e spaventoso viaggio, il gommone su cui ero incastrato assieme ad altri trenta disperati, si fermò miracolosamente sulla spiaggia di Catania. Raccontai quindi la mia storia alla polizia italiana e dunque mi fu riconosciuto lo status di rifugiato politico.
Potei così provare a crearmi un’esistenza più serena, cominciando dalla ricerca di un’attività lavorativa: feci il muratore, l’ autista di furgone e poi il magazziniere, e svolgendo questi lavori non subii mai maltrattamenti o pregiudizi razziali. In Italia mi sono trovato bene. Tuttavia, nel 2009 fui arrestato con la grave accusa di sequestro di persona. Dagli atti processuali ho potuto sapere che l’entità materiale del riscatto sarebbe stata di quattrocento euro. Mi preme però dire che non ho mai commesso reati. Gli inquirenti si sono basati solo su una errata interpretazione di una telefonata intercettata, tanto che il corpo del reato, ovvero la persona sequestrata, rimane ancora oggi un mistero per me.
Sapete, anche nella mia lingua madre, cioè l’arabo, si dice che “La speranza è ultima a morire” e, frequentando il corso scolastico del Liceo Artistico Soleri-Bertoni, posso in effetti dire che “tutto il male non vien per nuocere”: fatalismo africano! Per lenire la mia angoscia la mia speranza è che anche i miei genitori, la mia unica sorellina e la mia fidanzata la pensino come me.
A cura di
Ahmad M.
Emilio T.
Salvatore T.
Il lungo viaggio da Leonardo Sciascia, Il mare colore del vino, Torino, 1973.
Era una notte che pareva fatta apposta, un’oscurità cagliata che a muoversi quasi se ne sentiva il peso. E faceva spavento, respiro di quella belva che era il mondo, il suono del mare: un respiro che veniva a spegnersi ai loro piedi.
Stavano, con le loro valige di cartone e i loro fagotti, su un tratto di spiaggia pietrosa, riparata da colline, tra Gela e Licata; vi erano arrivati all’imbrunire, ed erano partiti all’alba dai loro paesi; paesi interni, lontani dal mare, aggrumati nell’arida plaga del feudo. Qualcuno di loro, era la prima volta che vedeva il mare: e sgomentava il pensiero di dover attraversarlo tutto, da quella deserta spiaggia della Sicilia, di notte, ad un’altra deserta spiaggia dell’America, pure di notte. Perché i patti erano questi – Io di notte vi imbarco – aveva detto l’uomo: una specie di commesso viaggiatore per la parlantina, ma serio e onesto nel volto – e di notte vi sbarco: sulla spiaggia del Nugioirsi, vi sbarco; a due passi da Nuovaiorche… E chi ha parenti in America, può scrivergli che aspettino alla stazione di Trenton, dodici giorni dopo l’imbarco… Fatevi il conto da voi… Certo, il giorno preciso non posso assicurarvelo: mettiamo che c’è mare grosso, mettiamo che la guardia costiera stia a vigilare… Un giorno più o un giorno meno, non vi fa niente: l’importante è sbarcare in America.
L’importante era davvero sbarcare in America: come e quando non aveva poi importanza. Se ai loro parenti arrivavano le lettere, con quegli indirizzi confusi e sgorbi che riuscivano a tracciare sulle buste, sarebbero arrivati anche loro; “chi ha lingua passa il mare”, giustamente diceva il proverbio. E avrebbero passato il mare, quel grande mare oscuro; e sarebbero approdati agli stori alle farme dell’America, all’affetto dei loro fratelli zii nipoti cugini, alle calde ricche abbondanti case, alle automobili grandi come case.
Duecentocinquantamila lire: metà alla partenza, metà all’arrivo. Le tenevano, a modo di scapolari, tra la pelle e la camicia. Avevano venduto tutto quello che avevano da vendere, per racimolarle: la casa terragna il mulo l’asino le provviste dell’annata il canterano le coltri. I più furbi avevano fatto ricorso agli usurai, con la segreta intenzione di fregarli; una volta almeno, dopo anni che ne subivano angaria: e ne aveva soddisfazione, al pensiero della faccia che avrebbero fatta nell’apprendere la notizia. “Vieni a cercarmi in America, sanguisuga: magari ti ridò i tuoi soldi, ma senza interesse, se ti riesce di trovarmi”. Il sogno dell’America traboccava di dollari: non più, il denaro, custodito nel logoro portafogli o nascosto tra la camicia e la pelle, ma cacciato con noncuranza nelle tasche dei pantaloni, tirato fuori a manciate: come avevano visto fare ai loro parenti, che erano partiti morti di fame, magri e cotti dal sole; e dopo venti o trent’anni tornavano, ma per una breve vacanza, con la faccia piena e rosea che faceva bel contrasto coi capelli candidi.
Erano già le undici. Uno di loro accese la lampadina tascabile: il segnale che potevano venire a prenderli per portarli sul piroscafo. Quando la spense, l’oscurità sembrò più spessa e paurosa. Ma qualche minuto dopo, dal respiro ossessivo del mare affiorò un più umano, domestico suono d’acqua: quasi che vi si riempissero e vuotassero, con ritmo, dei secchi. Poi venne un brusìo, un parlottare sommesso. Si trovarono davanti il signor Melfa, che con questo nome conoscevano l’impresario della loro avventura, prima ancora di aver capito che la barca aveva toccato terra.
– Ci siamo tutti? – domandò il signor Melfa. Accese la lampadina, fece la conta. Ne mancavano due. – Forse ci hanno ripensato, forse arriveranno più tardi… Peggio per loro, in ogni caso. E che ci mettiamo ad aspettarli, col rischio che corriamo?
Tutti dissero che non era il caso di aspettarli.
Se qualcuno di voi non ha il contante pronto – ammonì il signor Melfa – è meglio si metta la strada tra le gambe e se ne torni a casa: che se pensa di farmi a bordo la sorpresa, sbaglia di grosso: io vi riporto a terra com’è vero dio, tutti quanti siete. E che per uno debbano pagare tutti, non è cosa giusta: e dunque chi ne avrà colpa la pagherà per mano mia e per mano dei compagni, una pestata che se ne ricorderà mentre campa; se gli va bene…
Tutti assicurarono e giurarono che il contante c’era, fino all’ultimo soldo.
– In barca – disse il signor Melfa. E di colpo ciascuno dei partenti diventò una informe massa, un confuso grappolo di bagagli.
– Cristo! E che vi siete portata la casa appresso? – cominciò a sgranare bestemmie, e finì quando tutto il carico, uomini e bagagli, si ammucchiò nella barca: col rischio che un uomo o un fagotto ne traboccasse fuori. E la differenza tra un uomo e un fagotto era per il signor Melfa nel fatto che l’uomo si portava appresso le duecentocinquatamila lire; addosso, cucite nella giacca o tra la camicia e la pelle. Li conosceva, lui, li conosceva bene: questi contadini zoticoni, questi villani.
1
Il viaggio durò meno del previsto: undici notti, quella della partenza compresa. E contavano le notti invece che i giorni, poiché le notti erano di atroce promiscuità, soffocanti. Si sentivano immersi nell’odore di pesce di nafta e di vomito come in un liquido caldo nero bitume. Ne grondavano all’alba, stremati, quando salivano ad abbeverarsi di luce e di vento. Ma come l’idea del mare era per loro il piano verdeggiante di messe quando il vento lo sommuove, il mare vero li atterriva: e le viscere gli si strizzavano, gli occhi dolorosamente verminavano di luce se appena indugiavano a guardare.
Ma all’undicesima notte il signor Melfa li chiamò in coperta: e credettero dapprima che fìtte costellazioni fossero scese al mare come greggi; ed erano invece paesi, paesi della ricca America che come gioielli brillavano nella notte. E la notte stessa era un incanto: serena e dolce, una mezza luna che trascorreva tra una trasparente fauna di nuvole, una brezza che allargava i polmoni.
– Ecco l’America – disse il signor Melfa.
– Non c’è pericolo che sia un altro posto? – domandò uno: poiché per tutto il viaggio aveva pensato che nel mare non ci sono nè strade nè trazzere, ed era da dio fare la via giusta, senza sgarrare, conducendo una nave tra cielo ed acqua.
Il signor Melfa lo guardò con compassione, domandò a tutti – E lo avete mai visto, dalle vostre parti, un orizzonte come questo? E non lo sentite che l’aria è diversa? Non vedete come splendono questi paesi?
Tutti convennero, con compassione e risentimento guardarono quel loro compagno che aveva osato una così stupida domanda.
- Liquidiamo il conto – disse il signor Melfa.
Si frugarono sotto la camicia, tirarono fuori i soldi.
– Preparate le vostre cose – disse il signor Melfa dopo avere incassato.
Gli ci vollero pochi minuti: avendo quasi consumato le provviste di viaggio, che per patto avevano dovuto portarsi, non restava loro che un po’ di biancheria e i regali per i parenti d’America: qualche forma di pecorino qualche bottiglia di vino vecchio qualche ricamo da mettere in centro alla tavola o alle spalliere dei sofà. Scesero nella barca leggeri leggeri, ridendo e canticchiando; e uno si mise a cantare a gola aperta, appena la barca si mosse.
E dunque non avete capito niente? – si arrabbiò il signor Melfa. – E dunque mi volete fare passare il guaio?… Appena vi avrò lasciati a terra potete correre dal primo sbirro che incontrate, e farvi rimpatriare con la prima corsa: io me ne fotto, ognuno è libero di ammazzarsi come vuole… E poi, sono stato ai patti: qui c’è l’America, il dovere mio di buttarvici l’ho assolto… Ma datemi il tempo di tornare a bordo, Cristo di Dio!
Gli diedero più del tempo di tornare a bordo: che rimasero seduti sulla fresca sabbia, indecisi, senza saper che fare, benedicendo e maledicendo la notte: la cui protezione, mentre stavano fermi sulla spiaggia, si sarebbe mutata in terribile agguato se avessero osato allontanarsene.
Il signor Melfa aveva raccomandato – sparpagliatevi – ma nessuno se la sentiva di dividersi dagli altri. E Trenton chi sa quant’era lontana, chi sa quando ci voleva per arrivarci.
Sentirono, lontano e irreale, un canto. “Sembra un carrettiere nostro”, pensarono: e che il mondo è ovunque lo stesso, ovunque l’uomo spreme in canto la stessa malinconia, la stessa pena.
Ma erano in America, le città che baluginavano dietro l’orizzonte di sabbia e d’alberi erano città dell’America.
Due di loro decisero di andare in avanscoperta. Camminarono in direzione della luce che il paese più vicino riverberava nel cielo. Trovarono quasi subito la strada: “asfaltata, ben tenuta; qui è diverso che da noi”, ma per la verità se l’aspettavano più ampia, più dritta. Se ne tennero fuori, ad evitare incontri: la seguivano camminando tra gli alberi.
Passò un’automobile: “pare una seicento”; e poi un’altra che pareva una millecento, e un’altra ancora: “le nostre macchine loro le tengono per capriccio, le comprano ai ragazzi come da noi le biciclette”. Poi passarono, assordanti, due motociclette, una dietro l’altra. Era la polizia, non c’era da sbagliare: meno male che si erano tenuti fuori della strada.
Ed ecco che finalmente c’erano le frecce. Guardarono avanti e indietro, entrarono nella strada, si avvicinarono a leggere: Santa Croce Camerina – Scoglitti.
- Santa Croce Camerina: non mi è nuovo, questo nome.
– Pare anche a me; e nemmeno Scoglitti mi è nuovo.
– Forse qualcuno dei nostri parenti ci abitava, forse mio zio prima di trasferirsi a Filadelfìa: che io ricordo stava in un’altra città, prima di passare a Filadelfìa.
2
– Anche mio fratello: stava in un altro posto, prima di andarsene a Brucchilin… Ma come si chiamasse, proprio non lo ricordo: e poi, noi leggiamo Santa Croce Camerina, leggiamo Scoglitti; ma come leggono loro non lo sappiamo, l’americano non si legge come è scritto.
– Già, il bello dell’italiano è questo: che tu come è scritto lo leggi… Ma non è che possiamo passare qui la nottata, bisogna farsi coraggio… Io la prima macchina che passa, la fermo: domanderò solo “Trenton?”… Qui la gente è più educata. Anche a non capire quello che dice, gli scapperà un gesto, un segnale: e almeno capiremo da che parte è, questa maledetta Trenton.
Dalla curva, a venti metri, sbucò una cinquecento: l’automobilista se li vide guizzare davanti, le mani alzate a fermarlo. Frenò bestemmiando: non pensò a una rapina, che la zona era tra le più calme; credette volessero un passaggio, aprì lo sportello.
-Trenton? – domandò uno dei due.
-Che?- fece l’automobilista.
-Trenton?
-Che Trenton della madonna – imprecò l’uomo dell’ automobile.
– Parla italiano – si dissero i due, guardandosi per consultarsi: se non era il caso di rivelare a un compatriota la loro condizione.
L’automobilista chiuse lo sportello, rimise in moto. L’automobile balzò in avanti: e solo allora gridò ai due che rimanevano sulla strada come statue – ubriaconi, cornuti ubriaconi, cornuti e figli di… – il resto si perse nella corsa.
Il silenzio dilagò.
– Mi sto ricordando – disse dopo un momento quello cui il nome di Santa Croce non suonava nuovo – a Santa Croce Camerina, un’annata che dalle nostre parti andò male, mio padre ci venne per la mietitura.
Si buttarono come schiantati sull’orlo della cunetta perché non c’era fretta di portare agli altri la notizia che erano sbarcati in Sicilia.
IL LUNGO VIAGGIO di Leonardo Sciascia
Il fenomeno dell’emigrazione è spesso presente nella narrativa di Leonardo Sciascia, e non potrebbe essere altrimenti, visto che, dal primo Novecento in poi, esso ha coinvolto in modo massiccio l’Italia e soprattutto la Sicilia. Basti citare il racconto “Il lungo viaggio”, contenuto nella raccolta “Il mare colore del vino”, il quale parla del lungo flusso migratorio verso l’America, vista come luogo di prosperità economica e benessere cittadino. “Il sogno dell’America traboccava di dollari: non più il denaro, custodito nel logoro portafogli o nascosto tra la camicia e la pelle, ma cacciato con noncuranza nelle tasche dei pantaloni, come avevano visto fare ai loro parenti, che erano partiti morti di fame, magri e cotti dal sole; e dopo venti o trent’anni tornavano, ma per una breve vacanza, con la faccia piena e rosea che faceva bel contrasto coi capelli candidi“. In un’intervista Sciascia ha affermato che episodi simili a quelli raccontati nella novella sono accaduti realmente. L’episodio è ambientato in un paese della Sicilia, tra Gela e Licata, dove un gruppo di paesani si lasciano allettare da un mediatore che promette loro un passaggio su un piroscafo per raggiungere l’America; non immaginano però, che in realtà il loro sogno è destinato a rimanere tale: la barca li ha solo portati al largo per poi farli sbarcare in un altro punto della costa siciliana. La speranza di una nuova vita è stata solo un’illusione. Il brano è suddiviso in tre ampie parti descrittive: la partenza, il viaggio e lo sbarco. La partenza avvenne durante una notte, che sembrava riflettere lo stato d’animo e le sensazioni provate dai futuri emigranti; era densamente oscura e, come scrive Sciascia, sembrava quasi impossibile muoversi in quanto se ne sentiva quasi il peso. L’autore ci presenta il mondo come un nemico, il cui respiro è il rumore delle onde del mare che si infrangono sulla riva. All’ alba, in un tratto di spiaggia pietrosa e arida, fra Gela e Licata, stavano aspettando il loro imbarco un gruppo di emigranti, partiti dai loro paesi interni, lontani dal mare, che avevano con sé solamente piccole valigie di cartone e i loro fagotti. Per qualcuno di loro era il primo incontro con il mare e, per questo, grande è la loro paura di attraversarlo. L’uomo, “una specie di commesso viaggiatore con la sua parlantina ma nello stesso tempo con un volto serio e onesto“, aveva detto loro che li avrebbe imbarcati di notte e sbarcati di notte sulla spiaggia del New Jersey (che gli emigranti, gente umile e ignorante, con un’approssimativa pronuncia inglese chiamavano Nugiorsi) a due passi da New York (Nuovaiorche) e aveva aggiunto che avrebbero potuto scrivere ai parenti in America, che così avrebbero potuto andare ad aspettarli alla stazione di Trenton dopo dodici giorni dalla partenza, senza badare però un giorno più o un giorno meno se vi fossero stati dei disguidi: “L’importante era solo sbarcare in America, come e quando non aveva importanza“. Dopo aver attraversato il grande “mare oscuro” sarebbero approdati agli “stori” (store= in inglese significa grande negozio) e alle “farme” (farm= fattoria) americani e si sarebbero ricongiunti all’affetto dei loro parenti, alle calde e accoglienti case che pullulavano in quelle città, “alle automobili grandi come case“. Il viaggio costava 250.000 lire, metà delle quali dovevano essere consegnate alla partenza e metà all’arrivo; questi soldi venivano custoditi gelosamente, tra la pelle e la camicia. Per racimolarli avevano venduto le cose più care: la casa, il mulo, l’asino, le provviste dell’annata, il cassettone da biancheria (canterano), le coltri. Altri, più furbi, avevano fatto ricorso agli usurai, con la segreta intenzione di fregarli almeno una volta dopo che avevano subito per anni la prepotenza ed erano soddisfatti al pensiero della faccia che avrebbero fatto dopo aver saputo che erano emigrati, e con l’appellativo di “sanguisughe” li invitavano a raggiungerli in America dove avrebbero ridato loro i soldi senza interessi. Erano ormai le undici e uno di loro accese una lampadina tascabile: era questo il segnale della loro partenza. Gli emigranti si trovarono davanti il signor Melfa, l’impresario della loro avventura, che, prima di partire, li aveva avvertiti del suo non perdono se essi non avessero consegnato tutta la somma di denaro stabilita. Dopo i giuramenti e le sicurezze degli espatrianti, il signor Melfa li fece salire sulla barca, “e di colpo ciascuno dei partenti diventò una informe massa, un confuso grappolo di bagagli”: tutti si riunirono in modo compatto insieme ai loro bagagli, “con il rischio che un uomo o un fagotto traboccasse fuori“. A ciò il signor Melfa non dava importanza: per lui infatti la differenza tra un uomo e un fagotto stava nei soldi che erano posseduti solo dal primo. Dopo undici difficili notti il viaggio terminò: il signor Melfa chiamò in coperta i passeggeri, presentando loro i paesi della ricca America che con le loro luci brillavano come gioielli nella notte serena e dolce: una mezza luna brillava tra un trasparente insieme di nuvole, una brezza che allargava i polmoni. Un passeggero dubitò sul fatto che nel mare non c’erano né strade né trazzere e chiese se quella era veramente l’America e non un altro paese. Il signor Melfa lo guardò con compassione e continuò a parlare chiedendo a tutti se dalle loro parti avevano mai visto un orizzonte come quello, se non sentivano che l’aria era diversa, se non vedevano come questi paesi risplendevano; tutti convennero e guardarono con compassione e risentimento il povero compagno che aveva parlato. Dopo aver liquidato il conto, ciascuno di loro prese le proprie cose in pochi minuti e scesero dalla barca ridendo e canticchiando; appena la barca si mosse, uno di loro si mise a cantare a gola aperta, ma il signor Melfa lo riprese subito facendolo tacere poiché non voleva correre rischi: d’altra parte lui aveva fatto il suo dovere, li aveva “buttati” sulla spiaggia americana. Così, rimasero seduti sulla fresca sabbia, indecisi, senza saper che cosa fare, chiedendosi quanto fosse lontana Trenton e quanto ci fosse voluto per raggiungerla. In lontananza sentirono in modo irreale un canto che sembrava di un carrettiere delle loro parti; subito pensarono che il mondo è ovunque lo stesso: dappertutto l’uomo manifesta con il canto la stessa malinconia, la stessa pena. Due degli sbarcati decisero di andare alla scoperta del “Nuovo Mondo”. Iniziarono a camminare in direzione della luce che il cielo emanava; quasi subito trovarono la strada, asfaltata, ben tenuta, diversa dalle loro, anche se in verità se l’aspettavano più ampia e più dritta. Nella strada passavano automobili simili alle loro, seicento e millecento; subito pensarono che in America venivano tenute per capriccio e che si compravano ai ragazzi come in Sicilia si faceva con le biciclette. Finalmente videro delle frecce indicative ai bordi della carreggiata e, dopo aver guardato che non arrivasse nessuna macchina, attraversarono e lessero: Santa Croce Camerina Scoglitti. Tutti e due dissero che questo nome non suonava loro nuovo; decisero di fermare la prima macchina che avrebbero incontrato per chiedere informazioni su Trenton. Fermarono una cinquecento, e quando uno dei due chiese: “Trenton?”; l’automobilista imprecò in italiano e “gli avventurieri” si resero conto che era un loro compatriota. L’automobilista ripartì gridando bestemmie e offese che svanirono nell’aria mentre l’automobile si allontanava; successivamente “dilagò” il silenzio. Uno dei due si ricordò in quel momento che in quel paese si era recato il padre dopo un’annata andata male dalle loro parti: si resero conto di essere sbarcati in Sicilia. Desolante la conclusione del racconto: “Si buttarono come schiantati sull’orlo della cunetta: chè non c’era nessuna fretta di portare agli altri la notizia che erano sbarcati in Sicilia“. I protagonisti del racconto sono degli emigranti intenzionalmente anonimi, simbolo del popolo siciliano e delle masse subalterne più in generale, contadini umili e poveri, abbagliati da una luce di speranza e di prospettive di ricchezza che vedono concretizzarsi nell’America, ingenui e ignoranti, pronti a fidarsi di chiunque e a basarsi su immaginari collettivi a cui affidare i propri beni, anche se questi sono tutto il lavoro di una vita, pur di vivere una vita migliore di quella che la Sicilia gli ha offerto. Gli emigranti lasciano dietro di sé una terra definita come «l’arida plaga del feudo», per raggiungere la terra dei sogni, spazio di abbondanza e luce. Il potere delle immagini create dai racconti sull’America dei parenti all’estero e degli emigrati di ritorno o in visita fa procedere il racconto in una direzione inattesa. Durante il viaggio, gli emigranti intravedono la terra paradisiaca che bramano: dall’imbarcazione le luci delle città costiere degli Stati Uniti brillano nella notte raddolcita dalla brezza. Una volta arrivati, l’ambiente circostante gli appare simile a quello di casa (i canti dei venditori di strada, le dimensioni delle vie), ma il potere dell’immaginazione è talmente forte che persino le cose a loro familiari s’ingrandiscono o scompaiono, proprio perché vengono guardate attraverso il filtro defamiliarizzante che si adatta alla loro idea mitica dell’America. Persino quando leggono sui cartelli stradali i nomi di paesini locali quali Santa Croce Camerina, persino quando scambiano due parole in italiano con un abitante del luogo e persino quando quest’uomo legittimamente li manda al diavolo in risposta alla loro richiesta di informazioni su come raggiungere Trenton, gli emigranti negano la realtà dei fatti. Solo attraverso i ricordi, uno di loro si rende conto che Santa Croce Camerina è un paesino della costa siciliana dove suo padre tanti anni prima aveva trovato lavoro durante una brutta annata nelle campagne dell’interno. Solo a quel punto tutti quanti si rendono conto che, dopo undici lunghi giorni di viaggio, sono sbarcati in Sicilia! Nell’alternare spazi reali e immaginari, e nel paradossale collasso di entrambi alla fine, Sciascia denuncia apertamente il traffico umano illegale che si approfitta dell’ingenuità dei contadini ignoranti, il cui intenso senso di rivalsa contro l’ingiustizia del mondo offusca una reale valutazione delle cose.
100 EURO
(testo trovato in internet)
E’ una giornata uggiosa in una piccola cittadina, piove e le strade sono deserte. I tempi sono grami, tutti hanno debiti e vivono spartanamente. Un giorno arriva un turista (tedesco) e si ferma in un piccolo alberghetto. Dice al proprietario che vorrebbe vedere le camere e che forse si ferma per il pernottamento e mette sul bancone della ricezione una banconota da 100 euro come cauzione. Il proprietario gli consegna alcune chiavi per la visione delle camere.
– Quando il turista sale le scale, l’albergatore prende la banconota, corre dal suo vicino, il macellaio, e salda i suoi debiti.
– Il macellaio prende i 100 euro e corre dal contadino per pagare il suo debito.
– Il contadino prende i 100 euro e corre a pagare la fattura presso la Cooperativa agricola.
– Qui il responsabile prende i 100 euro e corre alla bettola e paga la fattura delle sue consumazioni.
– L’oste consegna la banconota ad una prostituta seduta al bancone del bar e salda così il suo debito per le prestazioni ricevute a credito.
– La prostituta corre con i 100 euro all’albergo e salda il conto per l’affitto della camera per lavorare.
L’albergatore rimette i 100 euro sul bancone della ricezione. In quel momento il turista scende le scale, riprende i suoi soldi e se ne va dicendo che non gli piacciono le camere e lascia la città.
– Nessuno ha prodotto qualcosa
– Nessuno ha guadagnato qualcosa
– Tutti hanno liquidato i propri debiti e guardano al futuro con maggiore ottimismo
LA FRONTIERA
Quello che ho recepito dopo aver letto il libro è che è importante rimanere umani qualunque sia la posizione sociale di ognuno di noi. Cosa molto difficile nelle frenesie giornaliere: tutti molto presi dalla voglia del successo o da ambizioni lavorative e dalla corsa al denaro. Prima di leggere il libro La Frontiera pensavo che questo fenomeno delle migrazioni umane non mi appartenesse, sembrava così staccato da me che non lo degnavo nemmeno di un pensiero. Adesso, invece, mi rendo conto che questi uomini e queste donne e questi bambini sono costretti a subire violenze fisiche e psicologiche tanto gravi che, pur di fuggire dalla terra in cui sono nati, sono pronti ad affrontare viaggi interminabili, che a volte durano anche anni. Io prima credevo che il viaggio fosse soltanto il tratto di navigazione: adesso mi rendo conto che dietro a tanti migranti ci sono anni di viaggio e di ingiustizie che si subiscono e che spesso rimangono nascoste sotto odiosi ricatti. Famiglie di origine costrette a lavorare duramente per raccogliere i soldi allo scopo di dare un futuro anche ad uno solo dei figli. Dalla lettura del libro ho potuto pure apprezzare l’umanità delle tante persone che con molta dedizione lavorano incessantemente per dare cura e ospitalità agli uomini che arrivano in vita, e un nome e (quando è possibile) una degna sepoltura per chi è stato meno fortunato. Lo scrittore Alessandro Leogrande con il libro La Frontiera mi ha reso un uomo migliore. (Giovanni S. studente ristretto)
LA GABBIA DORATA (film)
Da questo film emerge il concetto di frontiera, intesa come limite e separazione ovvero linea che separa i ricchi dai poveri; un concetto comune a tutte le storie di immigrazione. Delle storie che narra il documentario, vorrei commentare quella di Juan e Chauk, cioè il rapporto che si instaura tra i due nel corso della vicenda. Juan, infatti, non vorrebbe avere come compagno di viaggio Chauk, perché lo vede come un estraneo, nonostante Sara, l’unica ragazza del gruppo, sia invece favorevole. Già questo denota come anche in una piccola comunità si possa riscontrare la diffidenza verso chi non appartiene al contesto. Chauk tuttavia si pone alla fine al seguito di Juan e Sara, e ciò comporta inevitabilmente una serie di diverbi tra egli stesso e Juan. Un conflitto interpersonale dal quale, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, nasce invece alla fine un atto di profonda generosità. I protagonisti di questo filmato viaggiano anche a bordo di un treno chiamato La Bestia perché tanto carico che gli immigrati si issano fin sopra il tetto. Durante il viaggio, queste persone hanno di solito la solidarietà della popolazione che vive nei paesi che crescono lungo il tragitto percorso dal treno; una solidarietà che si concretizza con il lancio di cibo. Un’usanza nata grazie ad una coppia di anziani che, dopo avere acquistato degli alimenti per le loro necessità, notando quella povera massa di gente in viaggio, ha lanciato loro le buste con il cibo.
Ad ogni modo, durante una sosta effettuata dal treno, i trafficanti di esseri umani che già avevano rapito Sara, sequestrano anche Chauk. Juan, essendo uno dei trafficanti un suo connazionale, riesce invece a rimanere libero. Di conseguenza Juan ottiene di liberarsi, finalmente di Chauk, perlomeno questo è quanto si dovrebbe pensare dato il brutto rapporto tra i due.
Il ragazzo, però, al contrario, dopo alcuni tentennamenti, rischiando a sua volta di perdere la propria libertà, ritorna dai sequestratori di Chauk e lo riscatta consegnando loro tutti i propri denari, i quali gli sarebbero stati necessari per realizzare il sogno di raggiungere l’America.
Questo episodio ha suscitato in me tanta commozione, perché in un mondo dove tutti si sbranano a vicenda, vedere un gesto così determinato ed amorevole, mi ha dato conferma che un individuo – nonostante abbia vissuto gran parte della sua vita nel male, come è successo a me nella vita reale – ha sempre la possibilità di sostituire l’altruismo all’egoismo. Purtroppo i sogni di Juan, Chauk e Sara, seppure per motivi diversi, non si realizzano: infatti il sogno americano porta Chauk comunque alla morte, Sara forse a diventare una schiava del sesso, Juan a finire in una fatiscente fabbrica per la lavorazione della carne. Tuttavia, nonostante la maggior parte di questi immigrati abbia la consapevolezza che oltrepassare la frontiera ( quale che sia) finisca spesso in tragedia, non smettono mai di provarci perché qualunque cosa è preferibile ad aspettare, nel loro paese, la morte dell’anima e del corpo. Concludo questa riflessione dicendo che, secondo me, se non ci sarà una implosione del sistema attuale e subito dopo non affiorerà in ognuno di noi la coscienza che è necessario fare qualcosa per fermare questo disastro, le nuove generazioni continueranno a vedere dal vero le storie della Gabbia dorata. (Francesco S. studente ristretto)
TERRAFERMA (film)
Il film è pieno di scene simboliche e belle, come nella sequenza in cui le due donne si abbracciano per dirsi addio e piangono silenziosamente: sono diverse per il colore della pelle e per il percorso di vita, diverse in tutto, per religione, cultura e lingua, ma sono anche uguali: entrambe segnate dal dolore, non si arrendono perchè vogliono un futuro migliore per i loro figli. Io e Luna ci siamo trovate subito d’accordo: pensiamo che questa immagine dell’abbraccio sia una delle scene più commoventi del film, perchè dà l’idea di come le due donne siano riuscite comunque a comprendersi attraverso il linguaggio dei sentimenti. Giulietta si distacca con dolore dalla donna africana, che le ha sconvolto, ma le ha anche “riempito” la vita: la donna africana la chiamava “sorella”, grata perché aveva fatto nascere la sua bambina. Ora anche lei si sente finalmente “sorella”. (Elisa e Luna)
GRAZIE, Alessandro! (da tutti gli studenti)
sei una persona
seria
di coscienza
perbene
preparata
impegnata
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