“Avevo allora 10 anni, ne ho adesso quasi 90 e loro ci sono di nuovo”. Loro che sono saliti senza biglietto alla prima fermata del viaggio di Halina, loro che si sono accomodati illegittimamente, loro che nonostante non gli fosse permesso hanno preso il controllo del treno, loro che controllandolo l’hanno dirottato. Ma Halina, trasformando questa deviazione nel suo nuovo punto di partenza, ha compiuto un viaggio che l’ha portata fino a noi, per presentare al Salone del Libro di Torino il suo ultimo libro: La forza di vivere.

Accolta da un caloroso benvenuto, la scrittrice sopravvissuta ad Auschwitz ha raccontato al suo pubblico gli orrori dell’Olocausto. Inizialmente gli ebrei furono costretti a vivere nei ghetti, affinché non avessero contatti con la “razza pura”: se fosse successo sarebbero stati condannati a morte. Successivamente a causa dell’aumento demografico e dell’insostenibilità della situazione, iniziarono ad essere deportati nei campi. Così uomini, donne, bambini e anziani, con la speranza che la guerra durasse poco, cercarono di nascondersi per sopravvivere.  Cantine, ripostigli, stanze segrete diventarono le loro nuove case, che seppur anguste offrirono loro una via di salvezza. Halina era una ragazzina quando i nazisti catturarono suo padre; lei e sua madre riuscirono a nascondersi in un bunker, ma furono trovate e condannate ai campi di concentramento. Il primo fu Majdanek, nel quale sua madre, prima di morire, le donò il prezioso consiglio di fingersi una diciassettenne: questo le permise di non essere considerata una bambina e di venir trasferita in un campo di lavoro, Auschwitz. Rimase lì per due anni, nei quali lottò contro la fame, la malattia e le sue stesse compagne per la sopravvivenza. In quel campo Halina non si ritrovò faccia a faccia solo col dolore ma anche con l’amore: in seguito a una ferita da arma da fuoco inflitta da un SS, la prigioniera venne trasferita in una sala operatoria nella quale incontrò un infermiere che le rubò il cuore e che le promise che si sarebbero rivisti una volta finita la guerra. Il 27 gennaio del 1945 l’Armata Rossa liberò Auschwitz.

Cinque anni dopo Halina ebbe il suo primo figlio, le cui maestre la invitarono a scuola per raccontare la sua storia; ascoltando le sue parole però, le insegnanti ritennero che non fossero adeguate ad un pubblico di ragazzi e la giudicarono pazza, a tal punto da chiederle se non si vergognasse di quel che diceva. “Come? Mi dovrei anche vergognare?” fu la risposta di Halina.

Benedetta Casella e Elisabetta Mottola, Liceo Alfieri