Ho provato a raccontare una storia poco conosciuta, che una parte della nostra società ha sempre cercato di coprire, nascondere o far dimenticare, addirittura qualcuno dichiara l’ inesistenza del dramma successo agli ebrei, zingari, deportati di ogni razza e ceto. Ho provato a raccontare l’ Olocausto.
Mi sono immaginata di essere una ragazza ebrea , nel periodo in cui l’Italia fu investita delle leggi razziali e subito dopo dal fascismo, con l’ affermarsi di casa Savoia, che si ritrovò a gestire un Italia indifferente e ancora scossa dal regime e dalle sue regole: divieto di matrimoni misti, divieto di frequentare scuole pubbliche, divieto di ricoprire incarichi pubblici e di esercitare professioni. Le leggi razziali segnarono l’ inizio dell’ antisemitismo in Italia, fino ad allora rimasta estranea al clima di odio che già da un secolo animava le nazioni dell’ Europa centrale e orientale. Nel 1938 Mussolini fece pubblicare il “Manifesto della razza”, legandosi all’ ideologia nazista e dichiarando l’ esistenza di una razza “pura italiana” che escludeva gli ebrei. Lo stato liberale aveva consentito alla piccola comunità ebraica italiana di integrarsi perfettamente nella società civile e lo stesso regime fascista aveva di fatto tollerato benevolmente gli ebrei sino a quel momento.

Tutto d’ un tratto mi ritrovo ad essere straniera in casa mia. Gli amici di scuola con cui passavo il tempo iniziano ad evitarmi, ma gli anni passano tra l’ indifferenza della gente, fino al 1943, quando iniziarono le deportazioni.

Vengo sradicata dalla mia casa, dai miei amici, dalle mie abitudini, e da tutto ciò che una persona della mia età fa ;  presa e trasportata come un animale, messa in un vagone per le bestie e stipata come  fossi  merce.

Un viaggio senza ritorno! Angoscia. Paura. Terrore. Sapevo che sarei finita in Germania, la gente che non sa niente me l’ aveva accennato, era il vociare che dilagava negli ultimi tempi in paese. Il mio mondo crolla. Io crollo. Dove sono finiti i progetti per il futuro che avevo? Mi stanno rubando l’ età più bella , quella in cui si spererebbe tutto sulla vita. L’ ansia è tantissima , sento che anche chi mi circonda, chi mi sovrasta e chi sta sotto i miei piedi è preso dalle mie stesse sensazioni. Mio Dio che colpa ne ho? Vorrei urlare a quei soldati :”Crediamo nello stesso Dio io e te, sono come te! Perchè mi fai questo?”. È il mio incubo che sta diventando realtà, è il processo che porterà l’ uomo ad odiare se stesso. Tutto ciò non ha senso. Non può avere senso. Non siamo stati creati per odiare, non per odiarci, non per morire, non è questo il viaggio che Lui aveva scelto per noi. Come fa una nazione ad accogliere delle leggi così assurde? La convinzione di essere nel giusto ha fatto in modo che queste persone si potessero sostituire a Dio, decidendo la mia e la sorte di milioni di persone.

Il mio viaggio sulle rotaie continua  ritmato dai battiti delle ruote che pian piano sembrano trasformarsi  nei cuori che pulsano rapidi. Sembra non si fermi mai, anche se non ci danno da mangiare, anche se ho sete, anche se tutti gli spazi che fino poco prima erano solo miei sono diventati comuni , scontrandosi con quelli degli altri. Mio Dio dammi una spiegazione! Finchè il treno non si ferma nutro ancora una piccola speranza che non arrivi a destinazione . Non voglio credere nella realtà, e così preferisco abbandonarmi ai ricordi. Penso di essere un’ altra persona, magari non italiana, magari non ebrea e mi faccio inghiottire dall’ utopia.

Dopo tre giorni di corsa ci eravamo fermati solo per i rifornimenti di carbone ed acqua, per la locomotiva, non per noi. E la sete vi dico, porta alla disperazione. Credevo di aver raggiunto il limite, ma le cose di li a poco sarebbero diventate tragiche. Il treno era a vapore e durante il viaggio il fumo entrava nei vagoni, l’aria era talmente densa che non riuscivamo a respirare.  A noi per giusta gente, solo uomini  forti nelle loro divise che ci parlavano in modo duro e cattivo . Eravamo solo merce da portare a destinazione.

E poi d’ un tratto quella piccola speranza che avevo si dissolse nel nulla. Il treno era giunto alla sua ultima fermata . Appena scesa, non ebbi nemmeno il tempo di respirare a pieni polmoni che degli scheletri mi circondarono e con l’ultima forza che gli era rimasta in corpo mi aiutarono a scaricare i bagagli . Gli chiesi cosa sarebbe successo, dove ci avrebbero portati ma gli era stato ordinato di non parlarci. Ero confusa e sofferente ma poi incrociai lo sguardo con un soldato del campo e tutto mi fu chiaro, non avevo scampo, era la fine. Ma come poteva essere vero? Vidi una freddezza mortuaria in quegli occhi. Il sangue mi si gelò e un brivido mi percosse da cima a fondo. Mi resi conto di essere legata morbosamente alla mia vita, alla voglia di vivere, avrei sopportato ogni umiliazione, fame e fatica ma non gliela avrei mai data vinta a quegli aguzzini.
Ci sono migliaia di persone ma non una parola. Solo urla, questo è destinato a noi animali. Quello che mi stupì fu l’ indifferenza, la totale oggettività che appariva nel volto dei soldati. Sembrano semplici manichini, privati della loro anima, facevano ciò che qualcuno aveva ordinato loro. E allora capisco che sono nella nostra stessa situazione, noi gli odiamo ma loro non ne hanno alcuna colpa, è chi che per loro ha deciso il colpevole.
Dopo averci scaricato, il treno ripartì e a noi ci distribuirono in lunghe file per poi suddividerci in base alle nostre capacità fisiche. Nella disperazione un bagliore mi illuminò quando sentii dirmi che ero destinata al lavoro. Sarei andata a lavorare in una fabbrica della Siemens.

Un aspetto che non sempre la gente che vuole conoscere prende in considerazione è che Hitler, pensando alla sua strategia di creazione di una razza pura, ideò anche un corpo di lavoro in grado di risollevare l’ economia tedesca. Grazie ai milioni di ebrei che andarono a lavorare nelle fabbriche o nelle proprietà tedesche la produttività crebbe esponenzialmente.
Poi mi fecero spogliare, mi rasarono i capelli e mi diedero quell’ orrendo pigiama, davanti a quel pubblico silenzioso poi mi marchiarono con un numero. Volevano farmi dimenticare chi ero e trasformarmi in un numero, così potevano “spostarmi” meglio. Avrei voluto sprofondare. La mia dignità si dissolse, ma fu meglio così perchè di li a poco avrei capito che la dignità qui non aveva molto spazio.
Le settimane passavano, le luci degli uomini come me continuavano a spegnersi, le ossa bucavano sempre più la pelle senza più carne e nuove persone continuavano ad arrivare, e il campo diventava sempre più affollato. Epidemie di ogni genere, ossa nude e fumo dei corpi dei nostri amici convivevano insieme.
Fumo. Questo era quello che saremo diventati di li a poco. Ma questa è una mia intuizione, non ci era concesso saperlo, non ci potevamo permettere nessuna certezza. Poi una sera pensai davvero di voler morire, fu la prima volta. Da poco ci avevano dato l’ ordine di andare a dormire quando due SS (così si chiamavano i soldati del campo) bussarono alla nostra “baita”, mi chiamarono fuori dicendo che dovevano parlarmi. Avevo sedici anni. Ricordo che pioveva. Appena fui uscita mi portarono al centro del campo, mi sbatterono per terra nel fango e mi aprirono le gambe con uno strattone. Capii e mi lasciai abbandonare, non avevo la forza di provare a richiuderle, di ribellarmi e pensai solo, intensamente, a quando ero a casa , a tutte le cose magnifiche che mi erano capitate prima, alle persone che avevo incontrato, lasciai correre la mia mente dove voleva, qualsiasi posto sarebbe stato migliore di quello. Era la mia prima volta. Era cattiveria, pura e semplice, cosa potevano trovarci di bello in un mucchio di ossa senza capelli e infetta da chissà quali malattie. Potevo essere stata figlia, forse nipote di quegli uomini. Questi episodi si iniziarono a ripetere quasi ogni notte. Divennero un’ abitudine. Abitudine normale. Abusare di me, come di altre ragazze e bambine era un’ abitudine. Ma mi bastò quella notte per morire.

Vorrei che la gente non dimenticasse, che non si limitasse a dire ‘non succederà più’, ‘ormai è passato’ solo perchè non ha voglia di pensare a cambiare le cose. Solo perchè il sistema ci convince del contrario. Il mondo ci vuole stupidi, così siamo più docili e facili da convincere, ci vuole disinformati perchè il contrario porterebbe necessariamente a una ribellione. Ci stiamo facendo corrompere, come sono stati corrotti coloro che eseguivano i compiti assegnati da Hitler. Spalancate gli occhi gente! Che abbiate 16 o 60 anni, non è troppo tardi. Fate conoscere questa storia alla gente e fatela sconvolgere delle vostre paroleperchè così si deve sentire la gente, sconvolta, disarmata non deve rimanere indifferente. L’ indifferenza è la cosa più orrenda che possa esistere. E’ il non provare emozioni davanti a niente, è questo che volete? L’ apatia? Siamo tutti colpevoli, dai primo all’ ultimo, ma nessuno si merita una pena del genere. Tutti hanno diritto alla propria dignità, alla propria vita, nessuno si può permettere di decidere sulla vita e sulla morte di chi lo circonda.
Noi, grandi uomini moderni, non ci stiamo accorgendo che la situazione si sta ripetendo, l’ orrore alla gente non è bastato; a quanti è capitato di fissare una persona di colore in autobus, o in stazione o in centro? Non avremmo mai fissato ‘un bianco’, lui non è diverso da noi. DIVERSO. Questa è la parola che fa di un uomo una razza. Ci stancheremmo di vivere in un mondo dove la diversità non esiste, dove tutto è uguale per ognuno. Smettiamola di raggruppare le persone per il colore della loro pelle, del loro Dio, delle loro preferenze sessuali,… siamo tutti Uomini e dobbiamo vivere insieme. Non possiamo sperare nel progresso se continuiamo ad avere la mentalità di cento anni fa.

La storia che ho raccontato è inventata, mi sono basata su varie testimonianze che ho letto e che mi sono state raccontate.

Lorien Cimò 4G

Antologia della Memoria realizzata dai ragazzi del Liceo Scientifico Grigoletti di Pordenone