In questo articolo trovate parte dei lavori  che gli studenti ristretti della Casa di Reclusione Rodolfo Morandi di Saluzzo e gli studenti del liceo Soleri Bertoni hanno realizzato nell’ambito dell’adozione di Christian Raimo.  Ancora una volta dobbiamo ringraziare e ringraziamo volentieri la professoressa Rossella Scotta non solo per averceli mandati per il magnifico lavoro che fa per #adottaunoscrittore


A scuola di crimine

Cari ragazzi e ragazze,

dovete sapere che ho avuto anch’io quattordici anni, solo che allora non andavo più a scuola già da un paio; correvo invece lungo delle strade sterrate di collina delimitate da precipizi, a bordo della cinquecento di mia madre, con la voce dei Pink Floyd o dei Dire Straits che rimbombava nelle mie orecchie, mentre i miei compagni di sempre Melino e Mimì, due scapestrati quanto me, si sbellicavano dalle risate mascherando così in parte la paura che finissimo la giornata schiantandoci contro qualche albero. In realtà questo per fortuna non accadde mai, solo, qualche volta, per colpa delle curve a gomito all’interno delle quali derapare era un vero spasso, abbiamo strusciato il sedere contro qualche muretto di contenimento.

Ogni volta mia madre si trovava di fronte quest’auto, sempre più sfasciata e quindi  irriconoscibile, come suo figlio, correva a colloquio con mio padre, carcerato oggi sì e domani pure, cercando di persuaderlo a farmi quantomeno una ramanzina: “Ma lascialo sperimentare ‘sto ragazzo, che così impara a farsi le ossa!” – rispondeva lui, con una punta di orgoglio nella voce.

Non ci crederete, ma io imparai a farmele così bene ‘ste ossa che appena l’anno successivo fuggivo a Varese perché inseguito dalle forze dell’ordine: risultato di  un “disguido” tra me e un negoziante del paese.

Quando fui acciuffato, presi tante di quelle botte che ancora adesso non posso fare a meno di ricordarle, ciononostante varcai il portone del Beccaria (carcere minorile di Milano) con l’ incoscienza del delinquentello che credeva che tutto fosse un gioco ed uscii, dopo altri quattro mesi di rieducazione presso il minorile di Messina, dove ero stato nel frattempo trasferito, con la superbia di avere subito e superato la dura prova del carcere e dunque di essere ora un vero malavitoso. (Negli Anni Ottanta, i sistemi correttivi utilizzati presso il l minorile di Messina, peraltro  situato in un padiglione all’interno di quello per gli adulti, non erano propriamente quelli previsti dalla legge).   

Tornato  al paese con questa grossa sacca di vanteria fieramente portata sulle spalle, la banda composta da me, Melino e Mimì si  allargò di qualche altro ragazzo, tra cui Nico e Cisco, ch’erano più grandicelli di noi, con i quali elevammo il livello dei nostri traffici, aggiungendo ai furti anche lo spaccio di marjuana.   

Devo adesso dirvi, giusto per ordine di cose, che proprio in quel periodo i malavitosi della cittadina costituivano i primi  gruppi organizzati, i cosiddetti clan, ognuno dei quali però, pretendendo di prevalere sull’altro, produceva presto i primi conflitti e di conseguenza i primi morti ammazzati. Noi  ragazzi tuttavia, per quanto intuissimo che tutto questo avrebbe finito prima o poi per condizionarci, ci tenevamo ai margini di questa rivoluzione, senza prendere posizione.    

Ancora mia madre (poverella), che non badava per nulla a farsi gli affari propri, allarmata dal tenore di vita che conducevo e soprattutto dai frequenti controlli che a causa mia polizia e carabinieri erano ormai soliti fare alla nostra abitazione, tornava anche ora al carcere presso mio padre, tentando di persuaderlo a fare qualcosa: “Ma non stare là a preoccuparti che tra qualche mese esco e le cose si mettono a posto” – la rassicurava lui.

Ebbè, guarda caso, due mesi dopo averlo detto, mio padre tornò libero sul serio, grazie alla concessione di un permesso premio: è vero che le cose non andarono proprio come aveva sperato mia madre, perché lui, diffidando di quella particolare situazione che in paese opponeva i due maggiori gruppi di malavitosi ed essendo oggetto peraltro di ostilità da parte di entrambi, si trasformò subito in fuggiasco, riparando temporaneamente nel Nord Italia; tuttavia, mia madre ottenne comunque di allontanarmi dal paese, poiché io correvo, passo passo, appresso a mio padre.  

Milano, vi giuro, bella, grande e rigogliosa, ci accolse tanto favorevolmente che, nel giro di un paio di mesi, avviammo un discreto commercio di stupefacenti, che però durò finché, pochi altri mesi più tardi, mio padre e alcuni nostri complici non  finirono in manette, grazie alla soffiata di un informatore della polizia che li fece prendere con le mani nel sacco o, se preferite, nella droga. Io fui risparmiato soltanto perché coincidenza volle che mi trovassi in quei giorni in un’altra città. Una sfiga, a dirla col senno di poi, perché quel mio eventuale arresto sarebbe stato veramente il male minore o forse anche  la mia salvezza.

Mio padre, fino a quel momento latitante e per questo una possibile minaccia per chi avesse magari tentato di sottometterci, aveva sino allora rappresentato per me e, quindi anche per i miei compagni, una sorta di tutela. Mancando lui, questa tutela era venuta meno. Appena qualche settimana più tardi il suo arresto, infatti, Mimì e Cisco ricevettero per la prima volta, da parte di uno dei due gruppi malavitosi in lotta per il controllo degli affari illeciti sul territorio, delle inequivocabili pressioni: non avrebbero dovuto più operare furti, rapine, spaccio o altro illecito senza il previo consenso dell’organizzazione. Avviso che, inevitabilmente, si estendeva anche a Melino, Nico e, ovviamente, al sottoscritto. Erano queste le prime avvisaglie del disastro che avrebbe sconquassato le nostre vite di lì a breve.   

Già, perché noialtri, come avrete capito, eravamo comunque dei ragazzacci di strada e pertanto continuavamo a far di testa nostra, infischiandocene degli avvertimenti che provenivano da parte di quelli che ormai avvertivamo come dei nemici. Inimicizia che si rivelò  in modo drastico qualche mese più in là, quando un ragazzo vicino a noi, per le sue idee, fu fatto sparire nel nulla. L’ammonimento voleva essere chiaro: “Adeguatevi alle nostre regole o farete la stessa fine”.  

Ovviamente, noi facemmo tutt’altro. La nostra reazione, difatti, dopo un primo momento di smarrimento, fu quella di legarci col gruppo ostile ai nostri rivali e di conseguenza di mettere mano alle armi. Immolavamo in questo modo  le nostre vite sull’altare del dio crimine: il più grande di noi aveva a quella data ventuno anni, il più piccolo diciassette, io avevo da poco compiuto la maggiore età.    

Due anni di lotta armata, di agguati e di vendette, di fughe dalle forze dell’ordine e di incontri con la morte; conflitto nel corso del quale Melino, Nico, Mimì e Cisco sarebbero rimasti uccisi, mentre io, ferito dai proiettili di un cecchino, sarei stato arrestato poco dopo.    

Si concludeva in questo modo la storia criminale di noi ragazzi, mentre incominciava quella solitaria di me ventenne destinato a scontare una condanna   all’ergastolo (da allora sono trascorsi venticinque anni); la storia cioè di un ragazzo arrabbiato con le forze dell’ordine che lo avevano arrestato; con i propri nemici, che continuavano a uccidere i suoi compagni (Mimì e Cisco lo furono dopo il mio arresto); con quanti gli si dicevano “amici”, perché non credeva più in nessuno di loro (la scelta utilitaristica di molti di loro di tradire se stessi e i propri compagni per guadagnare uno sconto di pena, aveva progressivamente minato la mia fiducia) e, per finire, con se stesso, perché non era capace di accettare quella disfatta.  

In questa condizione, bramavo la libertà non per la libertà, ma per continuare la mia opera di distruzione e di autodistruzione. Anni di tormentata attesa, di ribellione contro le istituzioni penitenziarie e di contrasti anche con i compagni di detenzione, finché una mattina di settembre, non venne a trovarmi mia madre. Ancora lei, presente come non mai: era sola, stranamente.

Questa figura minuta, ma sempre composta, incedeva ora verso di me ricurva e sofferente.  

“No, tuo fratello no, pure lui no: per favore alla mamma, fallo per me, diglielo anche tu che non vuoi” –  implorò verso di me, quando mi fu di fronte, con dentro gli occhi la disperazione e la paura con le quali, immaginai,  anni prima aveva supplicato allo stesso modo mio padre nel tentativo di salvare me: mio fratello aveva preso a frequentare delle brutte compagnie, e lei paventava che finisse per fare la mia stessa fine o anche peggio.

“Per favore… la mamma, per favore… fallo per me” – ripeteva, stringendo forte le mie mani e cercando conforto nei miei occhi, mentre i suoi di occhi  denunciavano apertamente che non sarebbe sopravvissuta, se non avessi impedito a mio fratello di finire a sua volta schiavo della malavita.

Quel giorno distinsi per la prima volta concretamente l’angoscia e il dolore che consumava questa donna da sempre. Fu come se mi avessero  strappato i paraocchi dal cuore e mostrato tutto d’un colpo quanto fossi stato ingrato e disonesto verso di lei durante tutti quegli anni… questa verità mi  prese così alla sprovvista che riuscivo a malapena ad annuire con la testa, ma tanto bastò perché lei, abbracciandomi, si sciogliesse in un pianto liberatorio:  questa volta sarebbe riuscita a sottrarre quell’altro suo figlio, poco più che sedicenne, a quel maledetto circolo vizioso fatto di carcere e di morte e questa fiducia la riportava alla vita.

Proprio questo episodio innestò dentro di me il germe del dubbio: cosa avevo fatto, chi ero stato fino a quel momento? E poi, perché? Partendo da queste domande, incominciai a gettare sul mondo dentro il quale ero vissuto da sempre (quello malavitoso, extra e poi intra carcerario) uno sguardo critico, oggettivo,  privo di infingimenti, che mi restituiva man mano l’immagine di quanto fosse ingannevole e ingiusto, di quanto io stesso mi fossi ingannato e di come fosse parziale la mia visione della realtà.

Mi avvedevo a poco a poco di come i principi di solidarietà, di fratellanza, di lealtà e di parola – che avevano legato quei ragazzini che correvano a bordo di una cinquecento scassata – erano sostituiti nella malavita degli adulti da propositi più terreni e egoistici, come quelli del guadagno, della convenienza, e poi del tradimento, della gelosia e della calunnia… una  metamorfosi alla base della quale quei principi fascinosi, analoghi al verso artefatto di un canarino, che richiama e imprigiona il volatile nella trappola, erano mutuati dalla cultura comune e trasmutati in sacralità malavitose solamente per aggregare e asservire alla mentalità criminosa i più giovani: gli unici forse a credere davvero nella loro verità e inviolabilità. A credere cioè nell’onore malavitoso, in quel valore inalienabile che, contenendo in sé i principi prima ricordati, lo rendeva un uomo comunque meritevole di rispetto, perché non avrebbe mai consentito, tra l’altro, che si colpisse un innocente, si venisse a compromesso con i delatori, si “sacrificasse” un compagno per sanare i conflitti con l’avversario o si recasse offesa a un bambino… nella malavita degli adulti, perlomeno in quella da me conosciuta, tutti questi principi sono stati violati, ora per interesse di chi deteneva il potere ora per semplice meschinità, e pertanto dell’onore malavitoso resiste, secondo me, solo la narrazione romanzata dalla letteratura e dalla cinematografica del Novecento.

D’altra parte credo che l’onore appartenga alla persona, più che ad una condizione sociale qual è la malavita: magari a quella persona che, pur vivendo la malavita, sappia preservare i valori di quando era un ragazzo di strada e continui ad interpretarli con lo stesso spirito… tuttavia, se questo sia realmente possibile, è una domanda alla quale io stesso devo ancora trovare una risposta: questa persona infatti oggi avrebbe come alleata solo la propria coscienza.   

Prendere atto di questo rivolgimento mi ha permesso comunque di orientare la mia attenzione verso altre regole di vita, rispetto a quelle nelle quali avevo creduto da sempre, e ad accettare progressivamente l’idea della responsabilità, intesa, per quanto mi riguarda, nella necessità di ripristinare dentro di me la verità e quindi di riconoscere che ero io la causa del mio male, oltre che di quello altrui.

Ho ottenuto, come primo risultato, quello di vivere con sempre meno conflittualità il mio stato di detenzione: era frutto delle mie azioni e dunque dovevo accettarlo – poi, di scoprire quale benessere apportava di per sé la semplice possibilità di trasporre sulla carta i miei pensieri, come sto facendo oggi per voi e, ancora, di diventare una persona capace di raccontarsi e di comunicare con gli altri. Perché? Per tante ragioni, ma principalmente perché non vuole arrendersi all’idea di essere soltanto un numero di matricola, un uomo cioè destinato a restare nascosto nell’ombra dell’ergastolo, in attesa che l’indomani gli porti qualcosa che non sia  il nulla del giorno prima o di quello appena trascorso.

 

                                                                                             Un saluto a voi tutti,
Salvatore Torre


ECCHIMOSI DI UN ERGASTOLO(Ostativo)

Ancora oggi il sole si mostra nel cielo in modo indeciso, punteggiando debolmente le colline a ridosso le mura di cinta; è un sole primaverile, carnico (riferito ai monti della Carnia), che non si lascia cogliere più di tanto dall’epidermide. L’osservo trapassando lo sguardo di là della trama di ferri che occupa la finestra della mia stanza, mentre da quella di fianco continua a venire alle mie orecchie la voce spazientita di un compagno: Assistente, diciotto: doccia! – grida accompagnando quella richiesta con una parolaccia. (Il diciotto è il numero della doccia)

Lo fa da almeno dieci minuti, ma l’agente Mugugno (lo chiamiamo così per via della sua tendenza a parlare spesso tra sé e sé), lo lascerà senz’altro sgolare ancora per un bel po’.

Non è cattivo Mugugno, è solo un po’ avvinazzato e di logica tendenzialmente “inoperoso” … immagino quale senso di fatica debba provare quest’uomo all’idea di dover alzare le chiappe dalla sedia, lasciare il suo posto di guardia, percorrere quei quindici metri di corridoio, tirare fuori dalla cintola il grosso mazzo di chiavi, indovinare quella giusta, riuscire poi a inserirla nel pertugio del cancello e, finalmente, permettere a quel “cazzo” di detenuto urlante di raggiungere il vano doccia, situato più in là sul corridoio.

Questo carceriere sarebbe pure da capire, ma la sua indolenza ci rende nevrotici e ci priva alla lunga dei buoni propositi. Forse per questo, passato qualche altro momento, unisco la mia voce a quella del compagno e, come lui, inizio a chiamarlo nel reclamare la doccia. Del resto, stanotte ho dormito poco e male, e questo, già di primo mattino, mi ha reso poco incline ad avere pazienza.

Accendo il televisore. Marco Pannella annuncia l’ennesimo sciopero della fame. Chiede ancora, restando inascoltato, che siano varati dei provvedimenti legislativi per risolvere l’annoso problema del sovraffollamento delle carceri, in altre parole, un condono.

La chiave che gira nella toppa e leva le mandate dal cancello accanto al mio, mi avvisa che Mugugno si è destato dal suo etilico torpore.

Spengo il televisore. Indosso l’accappatoio, afferro il secchiello con gli indumenti sporchi e i detersivi, mi avvicino al cancello e l’aspetto.

Devi andare in doccia? – chiede sorvolando sull’evidenza.

Non rispondo, né lui, in verità, aspetta che io lo faccia. Infila la chiave nella serratura e apre.   

Guadagno il corridoio.

Agente, porco diavolo, devo fare la doccia pure io! -si lamenta un compagno da una cella vicina.

Mugugno non si volta neppure a guardarlo.

La doccia è piena – risponde prima di richiudere il cancello e ritornare di filato al suo posto di guardia.

Il locale doccia è per davvero affollato; tre compagni sono intenti a lavarsi e altrettanti aspettano di farlo.

Il vapore acqueo satura l’ambiente, si alza al soffitto, si condensa in grosse gocce d’acqua e gronda, irreversibile, sulle nostre teste: per un liceale sarebbe un’ottima lezione di fisica.

Sorrido a questo pensiero.

I presenti discutono della questione carceri, indubbiamente sollecitati dalla dichiarazione televisiva di Marco Pannella. Qualcuno azzarda che la nuova compagine governativa guidata da Enrico Letta gli darà retta risolvendo, finalmente, il problema. L’auspicio è che lo facciano al più presto così potranno ritornare a casa.

Avanzo fino al lavatoio, traggo fuori dal secchiello i detersivi e mi appresto a riempirlo d’acqua. I compagni si avvedono di me, allora tacciono un momento, mi salutano e cambiano argomento: sarebbe irrispettoso continuare a discutere di tornare liberi, davanti un condannato a trascorrere tutta la sua vita in carcere.

Lavo i panni.

Quando arriva il mio turno, m’infilo sotto lo spruzzo d’acqua calda e provo a quietare il malumore che mi strascico appresso da ore.  

Una condanna all’ergastolo ti riempie di dubbi e, quando alcuni di questi si spiegano con il passare del tempo, altri sono destinati a rimanere tali per sempre.

Di quest’ultima categoria credo faccia parte quello che mi molesta da qualche giorno.

“Per fortuna, non hai figli a cui pensare” – mi diceva l’altro ieri Gianni il Navigato, che di figli ne ha quattro, immaginando che, quando ne avessi avuto, mi sarei sentito maggiormente afflitto dalla mia condanna.

Per fortuna, diceva… io però non riesco ancora a decidere se lo sia oppure no.

A dire il vero, il ricordo dei miei nipoti, di Lollo, di Gigia, di Moretto e di Nemi, di questi piccolini che mi guardano con occhi incerti ma curiosi e mi donano dei sorrisi così innocui e cari, mi suggerisce che avere una figlia aiuta ad essere lieti persino in questa morte… (Morte civile, affettiva, sociale)

Ma è davvero così?

Dopotutto, da questi bambini ricevo amore, dolcezza e parole d’affetto, senza patire il tormento di saperli crescere senza di me; osservo la loro delicata evoluzione, le sfumature delle loro piccole vite, attraverso le foto, il racconto dei loro genitori, il loro tono di voce, quando l’ascolto per telefono, sapendo di non recargli sofferenza; certamente, non quella prodotta dall’assenza di un padre, perché non sono loro padre.

Appena la settimana scorsa, la più grande delle mie nipoti, Nanna, mi ricordava di avere compiuto ventidue anni: il numero è pari a quello degli anni che mi separano dal suo mondo. La ragazza era al telefono all’altro capo del Paese, in Sicilia, ed io, sino ad un momento prima di questa sua rivelazione, la ricordavo bambina, mentre giocava sistemando uno sopra l’altro gli sgabelli della sala colloquio.

Se fosse stata mia figlia e l’avessi condannata a vivere lontano da me tutti questi anni, avrei sofferto di più o la sua presenza nella mia vita mi avrebbe comunque reso l’esistenza carceraria meno afflittiva?

Non lo so, non sono padre …

La chiave che batte sul ferro della porta, mi chiama a voltarmi da quella parte: gli occhi onnubilati di Mugugno mi osservano di là della fenditura.

L’educatrice – mi avvisa.

Dille che sono uscito – rispondo.

Mugugno storce il collo e solleva le sopracciglia: l’ironia della mia risposta si spiega nel suo cervello qualche istante dopo, allora scuote la testa e si allontana.

Finisco di lavarmi.

L’educatrice è una donna che ha passato da poco i quarant’anni, mora, in sovrappeso, con disegnato sul viso un’espressione di perenne rimprovero. La vidi la prima volta mentre scontavo l’isolamento diurno, una sanzione penale che vieta al condannato ogni contatto con gli altri detenuti. Agosto era là per volgere a termine e la sua inquietudine mi suggerì che fosse impaziente di godersi le ferie estive.

Entro nel suo ufficio.

Questo mese dovremmo aggiornare il suo Programma Trattamentale -mi riferisce, dopo i convenevoli.

Lo farete? –dubito, essendo quattro anni che attendo che lo facciano.

Beh, il Magistrato di Sorveglianza deciderà sulla sua richiesta di permesso solo dopo averlo ricevuto.

La guardo perplesso.

Scusi, lei non ha richiesto questo beneficio? – chiede.

Sì, ma perché aspettare l’aggiornamento? – obietto, dal momento che ho presentato la richiesta ritenendo scontato il suo rigetto e, quindi, solo allo scopo di avere poi modo di ricorrere ad altro giudice.  

Perché l’attuale programma non prevede per lei la possibilità di fruire dei benefici premiali e, quindi, decidendo adesso, il magistrato sarebbe costretto a rigettare la sua istanza– spiega.

Nell’animo s’inocula un sibilo di speranza e, senza pensarci, lascio che una domanda fugga, improvvida, dalla mia bocca: Possibile che stia valutando l’opportunità di accordarmi il permesso?- azzardo, infatti, appena fiducioso.

Con l’ergastolo che ha? Ma se lo levi dalla testa! – esclama la mia lei,  come se avessi proferito una bestemmia.

Le rivolgo uno sguardo privo di sorpresa: la sua presa di distanza dal dettato costituzionale dell’articolo 27, secondo il quale le pene devono tendere al recupero del condannato, mi è ampiamente nota.

Accetterei pure il suo consiglio, se qualcuno avesse prima la decenza dispiegarmi per quale motivo il mio ergastolo deve essere diverso, ad esempio, da quello del mio coimputato che, già cinque anni fa, è stato ammesso a fruire di permessi – replico, ma solo per spirito di protesta.

Non si aspetti che sia io a farlo. E quanto al suo coimputato, magari avrà aderito alla richiesta di collaborare con la giustizia, cosa che lei si è sempre rifiutato di fare –precisa lei, dandomi una stoccata allo stomaco.

Dalla mia gola si snoda un sogghigno.

E certo, perché il condannato possa accedere ai benefici penitenziari, non si pretende un atto di penitenza, una presa di coscienza dell’ingiustizia causata  con i propri crimini, né che si conformi alle leggi e alle regole democratiche, no: perché le porte del carcere si riaprano e la società lo accolga di nuovo nel suo grembo, si mette semplicemente di fronte alla scelta di barattare la propria vita con quella di qualcun altro. Al mercimonio della dignità umana, niente di più, niente di meno di questo! – finisco per dire, ormai sommerso dal malumore.

Sul volto della mia interlocutrice si tratteggia un’espressione orripilata, ricolma di dissenso, ma esita a replicare ed io ne approfitto per chiudere la discussione.

Posso andare? – chiedo, prima che ricominci a parlare.

Lei mi guarda brevemente e sospira, poi, annuisce con il capo.

Vada, vada … tanto con lei è tempo perso.

Raggiungo la stanza che mi ospita poco dopo, mi appare disordinata più del solito e comincio a rassettarla. In realtà, è un modo come un altro per quietare il senso di frustrazione che continuo a provare ripensando alla discussione con l’educatrice.

Lucido i vetri della finestra, frattanto fuori pioviggina.

Mi attardo a guardare tra gli alberi, quando il fragore della “battitura”, proveniente dalle sezioni dei detenuti “Comuni” (detenuti per reati di non particolare gravità.), richiama bruscamente la mia attenzione. Si tratta di una modalità di protesta caratterizzata dallo sbattere degli oggetti contro le sbarre del cancello o le inferriate della finestra. Mi porto davanti al cancello all’unisono con gli ospiti delle celle di rimpetto. Ci guardiamo, senza comunicarci altro a parte l’ignoranza di quanto accade sopra di noi. Trascorre qualche momento perché dai piani sovrastanti ci sia comunicato l’accaduto: un marocchino è stato trascinato con forza dagli agenti presso le celle di punizione.

Solidarizziamo con loro, allargando la protesta alla nostra sezione.

Mugugno e due agenti di rinforzo si mostrano presto nel corridoio e prendono nota di coloro che aderiscono alla protesta.

Qualcuno s’intimorisce e si ritrae, ma in larga parte continuiamo ostinati a battere sul cancello; smettiamo di farlo solo quando c’è data voce che il ragazzo è stato ridato alla sezione.

Ognuno torna allora a occuparsi delle proprie inquietudini, più o meno uguali a quelli di questi giovani extracomunitari, molti dei quali si sono avventurati su delle imbarcazioni di fortuna ed hanno attraversato il mare, sperando di trovare qualcosa di diverso dalla disperazione dalla quale si erano messi in fuga; invece, hanno conosciuto il carcere, questo microcosmo in cui si articola un viaggio che sprofonda il visitatore dentro la complessità delle differenze umane, fatta di etnie, lingue, riti, culture e religioni spesso in conflitto tra loro, ma accomunata dall’emarginazione sociale, dal cinismo burocratico e, soprattutto, dall’assenza di punti di riferimento.

Perché si è soli, qui, lontani dal mondo…

Mi dolgo di me, mentre l’immagine di mia madre, quella figura minuta dagli occhi tristi, eppure mai vuoti di tenerezza, mi rimprovera che non è poi del tutto vero, perché lei è lì, instancabile, che aspetta il mio ritorno a casa.

L’idea di liberarla dalla schiavitù di questa attesa, è più che altro un’illusione che mi allontana dalla verità… ma, d’altra parte, è un’illusione che reca un fiato di vita dove di vita non ce n’è. Vita che si accorcia comunque anche mancando del tutto.

L’altro giorno, osservavo il mio volto allo specchio e lo comparavo con quello del ragazzo, ancora punzecchiato dall’acne, ritratto in una foto di ventitré anni prima. Mi era stata scattata l’anno precedente il mio arresto. Guardavo l’immagine nella foto e quella riverberata dallo specchio quasi senza riuscire a scorgere tra loro una rassomiglianza.

Alla luminosità di quel volto imberbe e sorridente si era sostituito lo sguardo inquieto e infelice di un quarantenne che si addolora, tra l’altro, di avere mancato l’appuntamento con la giovinezza; quella stessa giovinezza ostentata nella fotografia.

Ma non è finita, anni di agonico distacco dalla vita, indifferenti alle sofferenze, mi aspettano ancora di là di questo racconto.

Rifletto, con malinconica ragionevolezza, che la colpa può essere di uno solo, ma che la speranza dovrebbe essere di tutti, anche la sua.

Oltre il cancello, osservo Mugugno distribuire la corrispondenza. Trattiene un mozzicone di sigaretta tra i denti e socchiude le palpebre per impedire al fumo di accecarlo del tutto. Controlla il nome del detenuto sulla imposta della cella, scartabella la pila di lettere che tiene tra le mani, poi, consegna la busta e attende che il ricevente la apra e gli mostri il contenuto, allora sbircia fugacemente in quella direzione e tira avanti. Molti compagni, appoggiati al cancello delle rispettive celle, aspettano impazienti che giunga presso di loro e gli dia la lettera della compagna, dei figli o di qualche amico. Alcuni rimangono delusi e vedono accentuare le proprie ansie intanto che Mugugno scivola dinanzi a loro senza fermarsi; altri, avendo esaudita la propria attesa, espirano consolati; in pochi, pochissimi, restano pressoché indifferenti al suo passaggio perché, non avendo più alcuno con cui scriversi, non attendono nulla.

Conosco anche questa particolare apatia. Di quanti mi corrispondevano anni prima è rimasto veramente poco perché possa avere delle aspettative. La distanza e il tempo erodono lentamente il ricordo di chi non c’è, per quanto l’affetto continui ad abitare da qualche parte nel cuore di chi lo ha provato. Accade così per le persone care che sono morte, e lo stesso è per quelli che morti lo siano socialmente.

Mugugno si ferma davanti alla mia cella, mi guarda qualche istante mentre rimango con le spalle appoggiate contro la finestra, poi sbircia tra le lettere che gli rimane da consegnare e, come da rituale, sfarfallando il pollice e l’indice di una mano, fa cenno di no. Alludo un sorriso e muovo leggermente il capo in segno di assenso, allora, lui prosegue il suo giro.

Lo status quo di un condannato al carcere a vita logora progressivamente la sua rete di relazioni sociali e lo proietta inevitabilmente verso la dimenticanza e la solitudine. È un limbo nel quale, presto o tardi, si apre la strada che conduce a confrontarsi drasticamente con la sensatezza o meno della propria esistenza. Si fatica a persuadere se stessi dell’utilità di continuare a vivere. Del resto, di fronte alla consapevolezza di dover trascorrere tutta la vita rinchiuso in un carcere, come possibilità di liberazione rimane il suicidio o la meno spettacolare ma uguale rinuncia alla vita, rappresentata dalla totale negazione della propria umanità e di quella altrui, ovverossia dalla pazzia. Solo l’incapacità neuronale di intendere la vita, ti permette di scordare di non viverla.

Per fortuna o per disgrazia, in me residua ancora un barlume di lucidità, con il quale continuo a mediare tra la voglia di non lasciarmi imprigionare dalla retorica dell’abbandono e il senso di dannazione che provo all’idea che mi è negata la possibilità di tornare ad abitare la vita.

Il crepuscolo alza un velo d’ombra tra gli alberi oltre la finestra, mentre le ruote del carrello con il vitto dall’amministrazione  cigolano puntuali lungo il corridoio.

Artin, un bulgaro che indichiamo con il soprannome di Whisky, perché non di rado si regala il piacere di emulare Mugugno sul fronte del coito vinicolo, accompagna il carrello strascicando sul pavimento le grosse scarpe antinfortunistiche e, man mano, distribuisce il cibo nelle ciotole che gli sono porte dalle celle; i suoi gesti, meccanici e indolenti, ripetendosi con cadenza irregolare e tremebonda, tradiscono la sua perdurante infrazione al divieto di alzare il gomito.

Mugugno, con la consueta sigaretta rappresa tra le labbra, gli cammina di lato e, trascurando di vigilare sull’operato del lavorante, si rivolge agli altri detenuti con mimiche ipertrofiche e beffarde, tutte intese a evidenziare lo stato mentale ottenebrato di Whisky, senza rendersi conto che, in questo, loro due sembrano l’uno la riproduzione dell’altro.

Ammiro incuriosito questo strano duetto fintanto che giunge in prossimità della mia cella.

Insalata verde e wurstel- avvisa allegramente Mugugno.

Whisky lo guarda con l’aria di chi si sente defraudato della propria autorità, poi si volge verso me –C’è pure la minestra – aggiunge, non volendovi rinunciare.

Io provo a dissimulare il sorriso che nasce spontaneo sulle mie labbra e, mostrando disinteresse verso il cibo offerto dall’amministrazione, penso che nonostante tutto anche per oggi la mia giornata volge a termine.

Salvatore Torre


Una scuola lontana

Sono Alì, nato in Sudan, a Rang, nel ’76. A cinque mesi ho fatto il mio primo trasloco, andando ad abitare a Managil, piccolo villaggio di circa 300 abitanti. La vita di questo piccolo paesino era del tutto basata sull’agricoltura e il  centro era una piccola moschea, dove si riuniva la comunità, povera, ignorante e con un tenore di vita bassissimo anche per schemi non occidentali come i vostri.

L’unica certezza, oltre alla moschea, era il dittatore Numèri, spietato e sanguinario, nel rispetto della tradizione. Nel paese, neanche l’ombra di una scuola o di alcunché  le assomigliasse. Quella più vicina era a Mabruka, a 6 km. di distanza, che diventavano 12 con il ritorno, a piedi, e con una temperatura, che in inverno, quando faceva freddo, scendeva a +35° C.. Diciamo che la temperatura media era tra i 40° e i 50° gradi.

Avevo sei anni quando iniziai a frequentare la scuola e sono stato fortunato perché in famiglia, di due maschi e due femmine, solo io e la mia sorellina piccola siamo andati a scuola, mentre gli altri, a lavorare, subito, senza neanche l’alfabeto, per aiutare la famiglia a sopravvivere. Non era atipico per il mio villaggio che, nonostante una parte consistente dei 300 abitanti fossero bambini in età scolare, vedeva solo otto di essi andare a scuola, mentre la maggioranza subito nei campi, appena stavano in piedi.

Ovviamente solo gli allineati al regime potevano mandare a scuola, a loro spese, i figli, ma per la prole di quelli, anche solo lontanamente, dissidenti, l’istruzione era tassativamente proibita.

Per questi motivi, io e altri 7 bambini, ci facevamo 12 km. al giorno per andare nell’unica scuola disponibile. Il ciclo elementare durava 6 anni e le tre sole classi, di 35 scolari l’una, accorpavano rispettivamente primo, secondo e terzo biennio. In tutto c’erano tre insegnanti, che si occupavano di tutte le materie : arabo, lingua locale, matematica, Islam, scienza, storia e geografia. Gli insegnanti erano pagati dal governo, ma i libri, il materiale didattico e, naturalmente, il cibo erano a carico delle famiglie e per questo io e mia sorella spesso restavamo senza mangiare, non potendolo comprare.

Dopo aver terminato il ciclo elementare, frequentai la scuola media, che era un po’ più lontano: per questo vivevo in collegio e tornavo a casa una volta al mese.

Era abbastanza pericoloso il viaggio per andare a scuola e tornare perché spesso eravamo aggrediti, derubati o comunque vittime di quello che oggi si chiama bullismo, da parte di ragazzi più grandi o di adulti.

Nel collegio si viveva in un clima di intimidazione e violenza e gli insegnanti non esitavano a mandare via i bambini che non avessero i soldi pattuiti o quanto meno a lasciarli senza mangiare. Anche se voi faticherete a comprenderlo, il problema della mancanza di cibo è stato quello prioritario, per tutta la mia infanzia e nei due cicli scolastici che ho frequentato. Lascio immaginare quale serenità io potessi dedicare allo studio.

Da non dimenticare, però, che io ero tra i pochi fortunati a ricevere una istruzione, anche se sommaria e carente. Fin dalla più tenera età mi resi conto infatti della grande differenza che esisteva tra gli analfabeti e quelli che erano anche minimamente scolarizzati.

Un abisso divideva questi due gruppi, quanto a capacità di cavarsela, possibilità di accedere a un lavoro decente e uscire dalla emarginazione rispetto al mondo.

La formazione, sommaria e locale, pur non in linea con la globalizzazione, allora già in atto, mi consentì, una volta compiuti i 18 anni, di andare per un periodo in Egitto e successivamente di trasferirmi, a vent’anni, in Libia.

I miei amici d’infanzia, analfabeti e ottusi, non avrebbero mai potuto lasciare il paesello per il vasto mondo, se non per diventare schiavi o carne da macello in qualche guerra.

Questo mi ha dato la scuola: la possibilità di cogliere le opportunità e di sentirmi comunque all’interno della collettività. Non è la perfezione, ma è tantissimo, rispetto a chi non ha avuto nulla ed è la prova di quanto fondamentale sia poter avere un’istruzione.

La mia vita non è stata semplice e molti avvenimenti mi avrebbero atteso dopo il periodo giovanile. Dopo tanti anni, qui in carcere, ho incontrato nuovamente la scuola, naturalmente più moderna, con insegnanti migliori e con programmi più completi. Ho avuto così la conferma di ciò che ho sempre pensato e cioè che, anche per gli adulti, proseguire gli studi e valorizzare la cultura sia molto importante.

Credo infatti che l’esistenza umana sia una continua evoluzione, fino alla fine e che sia sempre utile  e gratificante porsi l’obbiettivo di crescere e comprendere sempre più.

Saluzzo, 2-4-2018

Alì M. Ibrahim

(testimonianza raccolta e scritta da Emilio Toscani)


Radar: tante domande poche risposte

E’ curioso scrivere un commento a un libro, dopo aver incontrato il suo scrittore. La particolarità di questo accadimento risiede nel fatto che le sensazioni derivanti dalla lettura dell’opera si mescolano, si fondono e si contaminano con quelle provenienti dall’incontro personale con l’autore. C’è quindi una triplice fonte da cui si riceve un condizionamento: l’opera, l’autore e il lettore.

 Venendo al romanzo, “Tranquillo Prof, la richiamo io” di Christian Raimo si offre al lettore sotto le mentite spoglie di un libretto semplice. Sembra il bizzarro divertimento di un insegnante, che ironizza su se stesso e sul suo mondo. Scritto con uno stile asciutto, diretto e leggero, narra di divertenti episodi di quotidianità, in una scuola italiana. In particolare, non fosse per la punteggiatura e la suddivisione in capitoletti, potrebbe assomigliare a un flusso di coscienza dove i pensieri di uno strambo insegnante si tuffano sul foglio, senza mediazioni.

  Il libro parla di un insegnante e del suo rapporto non facile con gli studenti. L’approccio del Professore con la sua professione è decisamente inusuale. Egli ama definirsi Radar anche se questa sua caratteristica è tutta da dimostrare e sembra più un auspicio che non una constatazione. La sua peculiarità più evidente è la ricerca ossessivo-compulsiva del rapporto con i suoi studenti, peraltro riluttanti, che lui vorrebbe pervasivo, aperto a 360°, curioso e ricco di stimoli. Gli studenti sono invece lontani, refrattari e poco accoglienti rispetto alle aspirazioni del loro Professore. Molto comiche le inadeguatezze dell’insegnante, che colleziona una ricca serie di figuracce e di disavventure nel proporsi, spesso in modo eccessivo. In ritardo, con disarmante frequenza, approssimativo nel portare a termine i suoi incarichi burocratici, impreparato sugli argomenti del programma scolastico, si lascia andare ad azioni di dubbio gusto, come il mercato nero dei libri, il tentativo di corruzione di un funzionario del Provveditorato parente di un alunno,  sbilanciandosi infine con gli studenti in maldicenze sul conto dei suoi colleghi Professori. Tenterà addirittura di pagare gli alunni pur di evitare una loro migrazione volontaria in un altro istituto, cercherà di intromettersi indebitamente nelle chat private dei ragazzi, si proporrà di supportare un’occupazione della scuola, raggiungendo infine, non invitato, i suoi allievi, durante una gita scolastica all’estero. La collezione di gaffe è così corposa che il lettore, pur non moralista o bacchettone, spesso prova vergogna e imbarazzo al posto del Professore, apparentemente incapace di percepire la totale inopportunità dei suoi comportamenti. La sua empatia, patologicamente ipertrofica, arriva a vedere nei suoi ragazzi problemi psicologici e comportamentali che non ci sono, inesistenti se non nella mente del Professore. Addirittura si dice certo di ravvisare bullismo o omofobia nella vita degli studenti, che invece sembrano indenni da problemi personali o sociali.

  Il giudizio su questo Prof è salvato dalla sua simpatia pasticciona e dalla sua umanità strabordante. Nel finale, dentro una provvidenziale chiavetta, che sarà forse trovata da un ipotetico e futuro bambino, si cela la vera natura di Radar e la portata del suo messaggio è così elevata da produrre l’immediato perdono di tutte le malefatte del nostro eroe. Nell’augurio di un entusiasmante futuro per i suoi studenti, dentro questa chiavetta del destino si trova tutto l’amore che egli forse non è sempre stato in grado di esprimere nel modo giusto, ma che comunque ha nel suo cuore con tutta la potenza consentita dal sentimento umano.

  Lo spessore etico e intellettivo degli studenti sembra, per contrasto, molto composto, maturo e sereno, in un rovesciamento di ruoli che vede Professore e alunni scambiarsi caratteristiche, quasi in una società rovesciata nelle sue competenze. Radar appare romantico, sentimentale e legato al mondo collettivo, quasi fosse un sessantottino arrivato in ritardo. Tipici di quel mondo sono terminologie e riproduzioni di condivisioni ormai assenti nei giorni nostri. Gli studenti, infatti, sembrano lontanissimi dal concetto utopico di società del loro Professore. Colti, disciplinati e corretti, sono quanto mai concreti e attenti agli aspetti pragmatici delle loro vite.

  Al di là di quanto esplicitamente espresso nelle storie di Radar, vediamo un uomo profondamente umano ed empatico che si confronta con studenti molto concentrati sulla concretezza del presente e poco inclini a costruire una comunità e una appartenenza sociale. Aleggia negli studenti una sfiducia nella possibilità di una condivisione sentimentale. Questi giovani sembrano interamente dedicati al perseguimento di finalità concrete e a un percorso che preveda il raggiungimento di mete ben definite. Sembra che l’autore voglia dire, senza dire, tutta la sua critica verso un mondo dove l’economia domina e annichilisce tutto l’aspetto poetico, romantico e idealista dell’essere umano. Studenti emotivamente distaccati, supercontrollati, sacrificati sull’altare dell’efficienza multitasking, non riescono a interagire con il Professore, ingenuo e con un’infantile capacità di meravigliarsi, concentrato nel lavoro di edificazione di un benessere psicologico per i suoi ragazzi che a loro sembra tutt’altro che prioritario. Nelle pagine di questo romanzo si legge, nei giovani, l’incapacità di sentimenti condivisi, a favore di una maturità solo cognitiva, logica e razionale. Sembra quasi che, più o meno consciamente, desiderino rimuovere ogni traccia della loro coscienza sensibile, quasi fosse un fattore che potrebbe togliere lucidità o inibire la capacità di agire.

  Nonostante tutta la difficoltà di scontrarsi contro un muro di indifferenza, il Don Chisciotte-Prof demenzialmente non demorde, non si arrende e continua imperterrito a proporre i suoi valori che considera nobilissimi. Di fronte a tante sconfitte, cerca in ogni modo di adeguarsi a un mondo a lui ostile e, nonostante i costanti rifiuti dei ragazzi, egli riesce a rimanere se stesso e a non affievolire la sua capacità di darsi in un mondo che sembra non volerlo.

  L’opera non ha un vero finale, se non un auspicio del Professore a veder trionfare ciò in cui crede. Il suo testamento ideale e progettuale è espresso con evidenza nella chiavetta USB nascosta tra i fiori, ma non è dato sapere se qualcuno la troverà, la leggerà e vorrà condividerla, apprezzandone i contenuti. Il lettore rimane con un dubbio irrisolto sulle future evoluzioni. Non si sa chi vincerà tra la razionalità degli studenti, duri e puri nella loro freddezza, e l’umanità folle di Radar.

  Il lettore si chiederà forse se potrà esserci una terza via di compromesso tra le due concezioni di vita o se rimarranno universi paralleli destinati a non incontrarsi mai. Il lettore potrà farsi tante e forse infinite domande, personalizzate e con risposte difficili, potrà ricordare la sua scuola o pensarne di nuove, ma sicuramente si sentirà colpito  (in molti casi “infastidito” in senso positivo) da questo originale lavoro.

                                                             Emilio Toscani, studente ristretto


A proposito del libro Tranquillo prof la richiamo io di Christian Raimo

Il professore del libro “Tranquillo prof, la richiamo io” di Christian Raimo secondo me è un po’ svampito, specialmente nella scena in cui gli alunni scoprono che utilizza il cassetto della cattedra in classe come una sorta di frigo dove tenere del cibo. Mi ha trasmesso inquietudine il fatto che telefoni nelle ore più improponibili ai suoi studenti… per fortuna credo che sarebbe irrealizzabile al giorno d’oggi,  per ragioni di tutela della privacy.

Inoltre il docente si comporta a mio parere in modo fin troppo amichevole con gli studenti, arrivando ad estenuanti e periodici tentativi di incontro, in luoghi come la propria abitazione, un bar, una pizzeria, nei quali personalmente non riesco ad immaginare il rapporto alunno-professore: questo tentativo di interazione troppo al di là della sfera scolastica mi ha lasciata perplessa; ad un certo punto arrivo a pensare che il professore non abbia amici, e che quindi cerchi di porre rimedio a questa mancanza nella propria vita sociale attraverso la vita scolastica.

 Egli propone numerose “lezioni alternative” fatte per esempio di semplice     scambio di opinioni , che però gli studenti non sono disposti ad affrontare, preferendo calarsi nelle cuffie per ascoltare la musica (quindi per non sentire i monologhi dell’insegnante) e  per studiare.

Anche questo aspetto mi è sembrato surreale: generalmente gli allievi cercano costantemente metodi per perdere tempo in classe, per non studiare né fare una lezione ordinaria di storia, invece questi invitano il professore a spiegare, a proseguire il programma, ad interrogare…

Però ho poi fatto una considerazione al riguardo, probabilmente ci tengono alla buona riuscita dell’esame di maturità, poiché stanno affrontando l’ultimo anno di liceo e il loro professore non sembra prendere in considerazione questo fatto o ricordarsene…rimanda la spiegazione di determinati argomenti oppure si presenta in costante ritardo in classe perdendo ore preziose di lezione.

Tuttavia mi ha rincuorato il fatto che gli studenti si preoccupino un minimo per l’insegnante, richiamandolo per esempio in seguito ad una sfilza di messaggi lasciati nella segreteria telefonica nei quali parlava con un tono di voce simile a quello di un quasi suicida.

Arrivata al punto della gita a Vienna, più che farmi nascere un sorriso, la vicenda mi ha fatto provare compassione, quasi angoscia, perché il professore, dopo aver trovato la somma necessaria per intraprendere il viaggio, parte alla volta dell’Austria per condividere quest’esperienza con gli alunni. La sua missione didattica e umana però fallisce miseramente, dato che gli studenti evitano di incontrarlo, indignati per questo suo comportamento.

In conclusione penso che un insegnante come questo non sia adatto alla vita reale, poichè secondo me un professore deve essere competente nella materia che insegna, umano nei rapporti con gli studenti ma con atteggiamenti non troppo amichevoli, e saggio, cioè capace di impartire insegnamenti di vita; quest’ insegnante a mio avviso non possiede nessuna di queste competenze.

Anna Gribaudo 

Dopo aver letto il libro “Tranquillo prof, la richiamo io” sono giunta alla conclusione che il professore, nonché protagonista del libro, non raffiguri il ruolo dell’ “insegnante tipo” odierno.

Egli infatti è una persona molto invadente poichè non si fa scrupoli, intromettendosi nella vita privata dei suoi alunni e infrangendo anche le regole sulla privacy. Molte volte nell’opera quest’ultimo chiama i ragazzi, la maggior parte delle volte per motivi extrascolastici, e non solo, ma riesce anche ad entrare nei loro profili social per maggiori informazioni.

Vuole essere chiamato “Radar” perché crede di riuscire a “captare” facilmente le sensazioni e i problemi delle persone, ma in realtà fraintende sempre le situazioni, creando disagio; è convinto, così facendo, di poter instaurare un rapporto nuovo, informale, nel quale le due parti sono allo stesso livello, come un’amicizia, diversa dalla solita relazione alunno-professore.

Nel corso dell’ anno scolastico arriva molto spesso in ritardo e quando finalmente dovrebbe spiegare la lezione vuole fare percorsi alternativi al programma, facendo perdere tempo essenziale per una classe quinta che deve affrontare la maturità; oppure indica date e riferimenti sbagliati. Ogni volta pare quasi che cerchi una scusa per non esporre gli argomenti, come se non li sapesse.

Penso che il sostantivo più adatto per descriverlo, oltre all’invadenza, è l’egocentrismo, poichè secondo me lui pensa che il mondo giri attorno a sè, come se gli altri non potessero vivere senza la sua presenza, ad esempio quando ruba i soldi alla scuola per raggiungere gli studenti in gita a Vienna oppure quando deve subire una semplice operazione e ne fa una tragedia, come se rischiasse la vita.

Inoltre non ha rispetto per gli studenti, chiamandoli al telefono ad orari impossibili e mangiando in classe. Si comporta in modo infantile, scrivendo critiche su se stesso nei bagni della scuola oppure offrendosi di risolvere situazioni sentimentali tra i ragazzi.

Non vuole neanche accettare il fatto, o rendersi conto, che in realtà i suoi studenti lo odiano per il suo comportamento e che è solo d’intralcio alla loro formazione scolastica, andando avanti e facendo finta di nulla.

Secondo me l’insegnante ideale dovrebbe essere rispettoso, sia degli orari che dei modi in un luogo scolastico e non; giusto, ovvero imparziale, senza fare preferenze; e competente nella sua materia,  che dovrebbe spiegare seriamente cercando di coinvolgere gli alunni.

Ambra Franceschini 

Il protagonista di “Tranquillo prof, la richiamo io” è un  insegnante di Storia e Filosofia in un liceo, che, pur mostrandosi del tutto impreparato a svolgere il proprio mestiere, crede di essere un ottimo educatore e, di conseguenza, pensa male di tutto ciò che non sia lui stesso. Convinto che il suo metodo di insegnamento sia il migliore, si fa chiamare Radar dagli alunni perché, proprio come un radar, pensa di essere in grado di captare le loro emozioni e necessità. Ha inoltre la fortuna di insegnare in una classe modello in cui gli allievi sono sempre educati e composti, vogliono fare lezione, non sono ribelli o sfrontati come spesso capita nelle scuole di oggi, non disturbano le lezioni. Il professore vuole stupirli a tutti i costi e così fa lezione ad esempio accovacciato sotto la cattedra o con le finestre spalancate in pieno inverno. Non è però in grado di comprendere le esigenze degli studenti e di mantenere la giusta distanza dalla classe. E’ un personaggio che qualche volta risulta essere persino ridicolo e suscita quasi pietà in tutta una serie di episodi in cui viene messo in evidenza il suo tentativo di “legare” con gli alunni; tentativo che di per sè potrebbe essere un atteggiamento utile a rendere le lezioni più gradevoli. Invece di spiegare Leibniz come richiesto dagli allievi, Radar cerca di catturare a tutti i costi l’attenzione dei suoi studenti: telefona loro di notte, invia continuamente messaggi, insegue la scolaresca che non lo ha voluto come accompagnatore nella gita scolastica, parla male degli altri insegnanti, si innamora, respinto, di una collega, arriva sempre in ritardo, è un pettegolo, arriva addirittura a proporre un pagamento in denaro per corrompere i suoi studenti e convincerli a non seguire in un altro liceo la supplente, preparatissima, che lo ha sostituito per un breve periodo. Man mano che la storia prosegue il professore perde sempre di più il contatto con i ragazzi e con la realtà.

Nel libro c’è un’inversione di ruoli che dà dinamismo e rende più leggera una questione importante come quella del rapporto tra professore e allievi. Radar si comporta come un ragazzino cercando di imporre agli allievi, che sembrano molto più maturi di lui, la sua amicizia non richiesta.

Se solo si preparasse adeguatamente per svolgere lezioni che rispecchiassero il programma e si rendesse conto che le sue intenzioni sono buone ma portate all’esasperazione e comprendesse il giusto limite di confidenza che deve esserci fra un insegnante e gli alunni, Radar potrebbe diventare il professore ideale, quello che ogni allievo vorrebbe avere…disponibile, simpatico e amichevole.

Sara Peracchia

… sembra un mondo alla rovescia, invece è la rappresentazione cristallina della  crisi dei presunti adulti , personaggi fragili e alla deriva.

La narrazione inizialmente è caratterizzata da un’ironia sottile, quasi impercettibile, che lentamente si rende sempre più evidente , mostrando tutti i luoghi comuni giovanili sul “professore amico” o sulla necessità del “dialogo con gli studenti “. Il rovesciamento comico è presentato fin dall’inizio: il professore è incompetente , si lascia andare a confidenze non richieste e si fa guidare dagli studenti, che lo considerano un caso perso, del tutto disorientato sul suo ruolo e sulle sue mansioni.

Personalmente il libro non mi ha entusiasmato molto, la figura del professore l’ho trovata comica solo in certi punti , per il resto durante la narrazione ho riscontrato aspetti contrastanti. Forse proprio questi hanno influenzato il mio pensiero, ho trovato quest’uomo spesso pesante, invadente quasi ai livelli di uno stalker e spesso poco realistico perché troppo esagerato. 

Però grazie a questo libro sono riuscita a mettere a fuoco le responsabilità che tutt’oggi dobbiamo assumerci , noi come studenti e i professori come nostre figure di riferimento. 

Ginevra Duglio

…. inizialmente pensi che sia un tipo divertente, semplicemente un po’ svampito, poi inizi ad avere addirittura un po’ di pena per quest’uomo, che farebbe di tutto per un po’ di compagnia, ma alla fine provi talmente tanta rabbia e irritazione nei suoi confronti, che la pena ce l’hai per i suoi poveri alunni che ogni giorno lo sopportano con estrema pazienza!

Il fatto più irritante, però, è che egli penserà fino all’ultimo di essere un pilastro fondamentale per i suoi ragazzi e continuerà a tormentarli interferendo nelle loro vite private, entrando nei loro profili di Instagram o Facebook e arrivando addirittura a prendere a scuola dei soldi destinati alle adozioni dei bambini in Africa, in modo da raggiungere i propri allievi in gita e poter vivere un’ultima esperienza insieme prima dell’esame di maturità.

Dunque fino alla fine non si riuscirà a capire come un matto del genere, superstizioso, ignorante, pettegolo e persin ladro sia riuscito a diventare insegnante, ma sicuramente ci si arrabbierà talmente tanto per i suoi modi alternativi e privi di alcun senso, che si arriverà a pensare l’ultima frase che uno studente possa pronunciare durante la sua carriera scolastica: “per favore prof, la smetta e ci interroghi!”

Matilde Abello             

… Con questo romanzo l’autore ha voluto estremizzare la figura del professore, ma non nel modo comune come già è stato fatto da numerosi altri autori, bensì trasfigurandolo in un personaggio quasi malsano per alcune sue abitudini nei confronti dei suoi studenti … Il libro è quindi quasi una commedia, in cui il protagonista -il professor Radar– ha tutte le caratteristiche di un personaggio grottesco.
Personalmente reputo quest’opera quasi irritante, dati i costumi del professore, ma penso che fosse proprio questa l’intenzione di Raimo: indurre il lettore a trovarsi, in un certo senso, a disagio di fronte alla figura di questo insegnante e reputarlo troppo pervasivo nei suoi modi. Tutto ciò porta ad apprezzare maggiormente la figura dei nostri abituali professori, anche se talvolta severi e troppo esigenti … certo è che il giusto compromesso tra i due modelli sarebbe la cosa più apprezzabile!

Lucia Cucchietti

Questo libro racconta di un docente non autorevole, spaventato, in cerca di riconoscimento, alle prese con degli studenti precisi, attenti, consapevoli del proprio ruolo … mi è piaciuto molto che la storia fosse divisa in mesi scolastici, cosí si sono potuti osservare i vari momenti più importanti, come l’inizio e la fine della scuola. Oltre a questo, ho apprezzato anche la comicità del testo, che  riesce a strapparti un sorriso … mi è piaciuto aver letto un libro che entrava anche nei panni del docente, e non solo in quelli dell’alunno, come succede solitamente. L’unico difetto, secondo me, era la ripetizione eccessiva delle varie azioni del professore: infatti ho trovato che le telefonate erano ripetitive, però le riflessioni dell’insegnante erano molto interessanti.

Alla fine del romanzo ho capito che la figura del docente è surreale e mi è persino dispiaciuto che  i suoi alunni non siano riusciti ad apprezzarlo per niente e che lui non abbia avuto i risultati che si aspettava. Consiglio il libro perchè fa riflettere attraverso la comicità e la leggerezza.

Laura Garello


ERGASTOLO OSTATIVO

Cari ragazzi,
cosa significa vivere così? Proverò a darvene un’idea proponendovi la seguente riflessione: immaginate di vivere dentro una stanza grande quanto uno sgabuzzino; una stanza che abbia il lettino rivolto verso l’entrata e sia chiusa da un cancello e da una porta di ferro, che lascia spazio alla luce solo attraverso una piccola feritoia.
Immaginate, ora, di aprire ogni mattino gli occhi e di trovarvi a fissare questo cancello e questa porta, trovando dentro il cuore la speranza che prima o poi si aprirà e, subito poi, fulminea, vi sovvenga la consapevolezza che questa speranza è soltanto il vano tentativo di allontanare da voi la verità: quella di essere destinati a invecchiare e a morire in carcere.
Vivere l’ergastolo significa appunto questo: abitare dentro un presente che trascorre uguale un giorno dopo l’altro senza prospettive né promesse, solo in attesa che la tua vita, inutilmente, si esaurisca.
Qualcuno di voi potrebbe magari obiettare che per meritare tutto questo avrò certo fatto delle cose tremende. Sì, è vero, le ho fatte, ma proprio per questa ragione credo debba esserci tra voi e me una differenza: quella differenza che Jeremy di “La logica dei bambini” non riconosce tra suo padre (che ha assassinato un altro essere umano) e quegli uomini (il governo del suo Paese) che, a loro volta, uccideranno “legalmente” quest’ultimo.
Quella differenza cioè che rende una persona capace di non lasciarsi intrappolare dal pregiudizio della massa, che le permette di guardare oltre gli spazi definiti dal proprio ambito sociale e di scoprire, mentre si trova immersa dentro la sorprendente diversità delle esperienze umane, come possa risultare a volte incompleto il metro di giudizio al quale si ricorre abitualmente per valutare l’animo di una persona…
Basterebbe allora riconoscere, per fare un esempio più concreto, che dietro un criminale non c’è soltanto il crimine che ha commesso, ma anche una storia – che lo ha formato e spinto a intraprendere un determinato percorso di vita – per riuscire a individuare e spiegare il perché di determinati comportamenti e azioni e pertanto a considerarli da una prospettiva diversa rispetto a quella strettamente giuridico – giustizialista della nostra attuale società: magari da quella prospettiva che si allarga e accoglie l’idea che offrire una possibilità di riscatto sia utile non solo al condannato, ma soprattutto a quella società che voglia continuare a migliorare se stessa.
È chiaro: nessuno mette in dubbio che in uno Stato di diritto si abbia il dovere di pretendere la punizione di chi infrange le regole democratiche, perché solo in questo modo si può effettivamente perseguire la giustizia; tuttavia, la domanda che mi pongo e sulla quale sarebbe bello rifletteste anche voi è la seguente: il concetto di giustizia può dilatarsi sino al punto di comprendere anche quello di vendetta, come la pena di morte e dell’ergastolo lascia supporre?
Concludo questa lettera con una confessione: una delle lezioni che ho imparato nel corso di tutti questi anni è che non sempre si ha la possibilità di riparare al male che si è fatto, ma che si può, anzi si deve sempre tentare di recuperare l’uomo che lo ha commesso, perché rinunciare a questo tentativo equivale a dichiarare la propria incapacità di combattere il male con codici diversi da quelli che non siano quelli del taglione e della vendetta: io, purtroppo, sono stato incapace di farlo… e voi?
Ecco, in fondo, sta tutto in questo la differenza di cui vi dicevo.

Un saluto a voi tutti


Introduzione alla devianza di un cane

Che palle! – Sbuffavo tra me, dopo aver guardato l’ora per l’ennesima volta.
Erano difatti già ben venti minuti che me ne stavo là ad aspettare. E dire che mi avevano pure sollecitato a sbrigarmi.
In quel momento, sedevo su una panca, ma le mie gambe non volevano saperne proprio di starsene ferme!
Il cervello poi mi andava quasi in corto circuito: ancora là a ripassare e a rielaborare mentalmente quella materia. La paura era quella di presentarmi alla commissione di esami senza trovare più una sola parola di quanto avevo studiato per tutto quel mese di maggio!
Tutta colpa della memoria breve!
Eh, già, perché vedete nell’altra pensavo di non conservarci mai nulla, ma proprio nulla di quanto affollava temporaneamente la breve!
Sì, dicevo proprio temporaneamente perché, chissà per quale mistero della natura, appena finivo di svolgere un esame quella memoria si svuotava di un colpo senza lasciare traccia alcuna delle nozioni cui abbondava fino a un istante prima!
Ero arrivato persino a pensare che questa mia curiosa ma più ancora molesta singolarità fosse dovuta allo stress sottinteso all’esame: tanto era cioè esorbitante lo stress, che alla fine lo sforzo faceva tabula rasa della mia mente!
Di quello avevo fatto ben esperienza studiando per il diploma di Geometra!
Avevo immaginato allora la mia mente uguale a un floppy, che a contatto con un magnete perdeva le informazioni registrate al suo interno: sol che del floppy una spiegazione scientifica l’avevo pure trovata, ma del mio caso nulla, neppure un indizio, un accenno, niente di niente.
Dovevo essere di sicuro l’unico caso al mondo!
E comunque il terrore più grande era quello che un giorno o l’altro questa memoria breve anziché dopo si svuotasse prima di dare l’esame!
Eh, sì, un poco strano c’ero, ma è da dire, solo per amor del vero, che delle mie fisime ero finito per ultimo per farmene una ragione!
Detestavo però enormemente dovere aspettare: madonna la nevrosi mi prendeva alle gambe senza più darmi pace! Mi tormentava proprio senza avere per me un minimo di pena! Eh, però altra era quel dì l’angoscia che concorreva a sollecitarmi in quel senso: vedete, mi tribolava a quel modo il pensiero che alla commissione venisse giusto di fargli una certa domanda …
Non che in tal caso avessi poco da dire, anzi era proprio quello il dramma che ne avevo anzi ad abbundantiam, tanto cioè da poter questionare dell’argomento per ore, soprattutto qualora avessi dovuto confutare talune conclusioni alle quali perveniva il saggio da me studiato: conclusioni che sentiva per vero sullo stomaco!
Già, ma al guaio si aggiungeva sempre altro guaio! E infatti, come se non bastasse quel mio assillo, si dava il caso che l’autore di quel saggio fosse, manco a farlo apposta, tra i membri facenti parte la commissione!
Oh, buon Dio: sarei riuscito mai a non far trapelare quel mio irrispettoso dissenso?
No, certo che no! Qualora mi avessero chiesto proprio di quella certa cosa, l’avrei anzi contestata non poco.
Ah, non avessi smesso di fumare, avrei forse trovato conforto in una bionda, mi dicevo allora, tra l’altro.
E quella stanzetta presso di cui mi obbligavano ad aspettare? Dio, era per davvero opprimente! Era tanto piccola che a non starci attento ci sbattevi il grugno contro lo spigolo! Appena un metro e venti per uno e sessanta di spazio, racchiuso poi tra due porte, entrambe belle chiuse! Io guardavo fisso quella che introduceva agli uffici: ma non s’apriva!
Mannaggia, ma quanto ancora ci voleva per venirmi a chiamare!
Boh!
Ma intanto era trascorsa la mezz’ora!
Possibile che si fossero scordati in quel modo di me?
A quel dubbio ero tentato di dare una voce, così da far tornare a quelli la memoria, qualora lo avessero fatto sul serio!
Eppure mi trattenevo: fosse mai che disturbavo qualcuno!
Insomma ritenevo opportuno non farlo.
E poi dovevo far pazienza ancora più d’altri: ero o no iscritto al corso di laurea per Educatore Professionale?
Cacchio, lo ero eccome!
Certo, era quello appena il primo anno di corso; era, è vero, il primo esame, ma, per la miseria, pur sempre di educazione si trattava, no?
E però quell’esame, quel primo esame del primo anno, mi aveva fatto per davvero inquietare!
Perché, sapete, tra le pagine di quel saggio, che ripeto aveva studiato per un mese intero, vi si celava infido un inganno!
Eh, sì, perché giusto a me, che di un mondo gregario della disuguaglianza sociale avevo vissuto, dacché ero nato, per intero la tragedia; a me che della devianza minorile ero stato, per mia mala sorte, l’emblema, si andava a raccontare di non avere afferrato nulla, non già di altro, ma di me stesso!
Ah, di quello sì voleva persuadermi quello scrittore!
Tuttavia, io resistevo: mi dicevo, infatti, che quel saggio offriva certo una visione d’insieme soddisfacente, ma pure che non mancava di sostenere delle sciocchezze!
Vi dico meglio: all’inizio di ogni paragrafo di quel saggio, una domanda introduceva alla relativa trattazione; ad esempio, al sesto era chiesto: “Quali problematiche sociali inducono i giovani al crimine?
Domanda innanzi alla quale io esclamavo: La subcultura della quale sono vittime! Che domande!
E così seguitavo a rispondere di paragrafo in paragrafo, vale a dire sino a quando non capitavo all’undicesimo.
Ah, signori, in quello stesso istante, cioè appena voltata la cento ventiduesima pagina, mi
prendeva pressappoco un colpo!
“Perché questi giovani non fanno una scelta di vita diversa?”
Ecco, mi aspettava al varco proprio questa domanda!
Lo so: a voi non farà magari alcuna impressione, ma a me, vi ripeto, poco manco che mi rincoglionisse!
Intendeva suggerire forse quella domanda che un giovane, cresciuto in una contesto sociale fuorviante, indottrinato a uno stile di vita delittuoso, abbagliato da simboli e valori criminali, avesse comunque la consapevolezza di poter scegliere di vivere una realtà differente da quella che lo aveva cinto a sé sin dalla nascita ?
“Minchia!” – esclamavo a dubitare di quello.
Perché, vedete, io non avevo neanche mai sospettato che, a quelli come me, fosse data una scelta! Anzi, ero certo che non fosse proprio possibile vedere di là del proprio mondo, cioè che potesse esisterne uno diverso!
Eppure quello si sosteneva a un certo momento in quel saggio!
Tanto mi buttava sul subito nel panico e dipoi, ancor peggio, mi ossessionava fino a farmi perdere il sonno!
In buona sostanza, andavo di matto!
Diamine, alla diabolica speculazione lombrosiana che voleva, tra l’altro, un difetto genetico quale responsabile della personalità deviata, si sostituiva un paradigma altrettanto sconcertante che, del giovane emarginato, affermava il libero arbitrio nello scegliere di vivere una realtà equivoca e pericolosa come quella delittuosa!
Vero era che io sentivo ancora l’eco della mia voce di adolescente, affermare che, da grande, avrebbe voluto diventare uguale il Malpassotu, Alias Giuseppe Pulvirenti, storico capo clan tra i più violenti e sanguinari della Sicilia.
Ma davvero avrei avuto per idolo non il Papa, non Gandhi ma la loro suprema antitesi, quando realmente avessi conosciuto l’esistenza di una realtà diversa da quella che mi aveva forgiato in
quel senso?
Io non lo credevo affatto.
Ravvisavo anzi, solo allora, ahimè!, i condizionamenti che stavano a valle di quell’indole indomita e fuorilegge: quale possibilità avevo di guardare oltre quella mia vita, se ero cresciuto in un ambiente simile, per usare una metafora, a quella stanzetta dove facevo da un po’ anticamera, cioè un luogo racchiuso in se stesso, impermeabile alle sollecitazioni esterne e dominato da valori e convincimenti irragionevoli, violenti, fuorvianti, criminogeni, quello che vi pare, ma così fortemente radicati nella mentalità del gruppo, da essere considerati parte del proprio patrimonio ereditario?
Potevo mai farlo quando era inculcato nella mia mente l’essere onorevole ospitare a cena un malvivente e una vergogna avere in famiglia uno sbirro? L’essere cosa buona e giusta proteggere il criminale dalle forze di polizia e invece immensamente disonesta denunciare un delitto?
Certo che no! – continuavo a ripetermi.
Indubbiamente, erano quelli disvalori: lo diciamo senz’altro, oggi, a guardare dall’alto e da lontano quel tempo, ma lo si vada a raccontare a un giovinetto che, lasciato lesto di giocare a pallone con i suoi compagni, prendeva improvvisamente a correre, con quanta forza e fiato aveva in corpo, per andare ad allertare il padre o, quando questi era carcerato, gli amici di lui, della presenza di una volante sulla strada del paese!
I poliziotti, tutori della legge e dell’ordine?
Chi, quelli là?
Macché: erano piuttosto dei malvagi che assaltavano di continuo casa mia per metterla a soqquadro o ancora peggio per arrestarmi il padre!
Diamine, chiuso in quello sgabuzzino, quei pensieri facevano di tormentarmi con maggiore insistenza! Decidevo quindi di distrarmi, mi alzavo dalla panca, facevo due passi, cioè nel senso letterale di due, fronteggiavo così la prima porta, mi voltavo allora su me stesso, facevo altri due passi e contemplavo la seconda: non avevo via di uscita, mi dicevo, riflettendo ancora di me ragazzino.
Al che levavo il pugno, intenzionato a battere la porta, ma anziché farlo restavo col braccio teso a mezz’aria: e il cane? Dove lo mettiamo il mio cane?
Il pensiero di quell’animaluzzo veniva dal niente a rimestare ancora del mio passato.
Evidentemente, non riuscivo a distogliermi dallo stesso.
Be’, che cosa c’entra adesso il cane, vi chiederete voi … Nulla, in verità, se pensate a un cane uguale a tanti altri, ma quello era un cane diverso, perché di fatto un cane deviato!
Proprio così.
Vedete, il mio cane, un bastardino tutto nero, dimorava abitualmente sulla strada, esattamente davanti casa mia. Dico abitualmente perché non di rado spariva senza preavviso anche per un’intera settimana. Ma non questo lo faceva strano, infatti, destava meraviglia il fatto che faceva transitare per quella via chicchessia, a qualsiasi ora del giorno e della notte, eccetto, guarda caso, carabinieri e affini!
Sul serio!, e a nulla valeva che fossero oppure no in divisa: li fiutava appena quando sopraggiungevano sulla piazzola del paese, che dalla casa, badate, distava non meno di trecento metri!
Cosi docile e caro, quel cane si trasformava in una belva giusto quando uno di quei signori faceva solo di recarsi alla nostra dimora. Tanto ringhiava e mostrava i denti, tanto era rabbioso e pronto per azzannare, tanto cioè faceva paura che una volta minacciavano con le armi perfino di ammazzarmelo!
Voi penserete che sia da ridere, ma non lo è per niente e appunto anche di questo meditavo in attesa di dare quegli esami.
Ah, sapeste, a vedermi a quel modo, con il braccio ancora levato a mezz’aria e con gli occhi spiritati, che parevano fissare chissà dove, mi avreste preso di sicuro per uno squilibrato. Ma in quell’attesa, mi chiedevo nuovamente quale salvezza potevo mai avere, se quel mondo subdolo e perfido, aveva persino suggestionato la ragione di un cane!
Vero, si potrebbe ora discutere, ma avremmo voglia a farlo, delle capacità di quell’animale di assecondare le pulsioni e di far sue le emozioni di quanti aveva in affetto, ma anche laddove ne concordassimo il senso, resterebbe dipoi che finanche lui, il cane, si era di fatto conformato alle leggi di quella scellerata società!
Quale salvezza, dunque?
Nessuna!
Deciso questo, riposavo finalmente il braccio, lasciandolo cadere malinconico lungo il fianco: che cosa avevo da scegliere, continuavo comunque a chiedermi, se già dalla prima giovinezza ogni cosa intorno a me dichiarava qual era la mia sorte?
Qual altra idea potevo avere della vita, se a pascere quel giovane che ero, non era la poesia né l’arte, ma la mala e il crimine?
Magari qualcuno o qualcosa, mi avesse fatto stirare il collo dall’altra parte di quel mio mondo … giusto per mostrarmi che di là c’era sicuramente di meglio, avrebbe forse insinuato nella mia vita non certo subito il dubbio, ma certo la curiosità mi avrebbe spinto a riguardare da quella parte e poi a farlo ancora e quindi chissà … potevo davvero trovare un richiamo che mi transitasse verso un altro destino!
Ma, chiederete voi, non avevo famiglia?
Famiglia?
Quale?
Quella serva, tale e quale al cane, di quella subcultura?
Quella in cui mio padre bivacca più per le galere che per la casa?
Quella che mi guardava, ragazzino, come l’erede e depositario di quei valori comunitari?
Mi rodeva proprio ripetermi quelle penose condizioni, perché, vedete, le avevo meditate tutte, non già una ma mille volte!
Ebbene, se non la famiglia, quali altre istituzioni sarebbero state là a perdere con me quel tempo?
L’assistenza sociale! – direte ora voi.
Chi?
Sì, va be’ … quella cosa là, era sconosciuta, non a me o alla mia famiglia, ma credo all’intera cittadina! Non che da quelle parti sentissimo l’esigenza di averci a che fare, per carità di Dio: ognuno si tenesse nel suo!
Però, in effetti, la presenza di quell’istituzione sarebbe potuta servire a qualcosa … chissà, avrebbe magari potuto convincere mio padre a prendere in considerazione la necessità di costringermi a tornare a scuola, subito quando avevo abbandonato quella dell’obbligo! Già che quest’ultima, la scuola, mi aveva cacciato via perché caratterialmente irrequieto e violento!
E’ vero, non lo rinnego: da ragazzino avevo uso di picchiarmi, giorno sì e l’altro pure, con qualcuno dei miei compagni! Ma, d’altronde, non riuscivo proprio a sopportare che dicessero male della mia famiglia.
Ad ogni modo, poteva anche insistere la scuola nel tentativo di recuperarmi!
Del resto, erano quelli gli anni ottanta e la filosofia della scuola, perlomeno in quella parte della Sicilia, era appunto quella di allontanare dal suo grembo gli alunni irrequieti e tenersi stretti quelli buoni e saggi!
A quel ricordo sussultavo: fossi vissuto in Lombardia, Piemonte, Toscana o Emilia Romagna!
Da quelle alture l’assistenza sociale magari non avrebbe fatto di lavarsene in quel modo le mani! Anzi, probabilmente sarebbe corsa a casa mia e minimo minacciato di querelare mio padre se non si fosse occupato di farmi tornare a scuola!
E la scuola mi avrebbe forse cacciato via?
Ma scherziamo?
Avrebbe semmai chiamato presso di sé i miei genitori per sottoporgli la questione e trovare così insieme la soluzione più idonea! Ma, appunto, in quella parte della Sicilia, quelle pratiche non erano per nulla in uso: forse manco esisteva l’assistenza sociale!
A quella considerazione ciondolavo la testa, sorridendo amaro di me.
Intanto, pativo, in silenzio, ben quarantacinque minuti di attesa.
Pazienza… mi ripetevo, mentalmente.
Avevo allora trentasei anni, ma già i capelli e il pizzetto mi si mostravano con qualche filo di grigio. Non ero sposato e, in realtà, non sapevo bene se un giorno mi sarebbe stata data la possibilità di farlo.
Disperavo, in verità.
Del resto, donne non potevo frequentarne tante e quelle poche, anzi pochissime che avevo modo di conoscere, non mi ritenevano per nulla affidabile. Per vero, mi guardavano solitamente di trasverso: i loro occhi sembravano sovente volermi esplorare la mente, mi scrutavano punto. Cercavano forse di capire chi fossi in realtà. Non che dessi loro agio di equivocare sulla mia personalità, anzi facevo semplicemente di mostrarmi così com’ero: ma forse proprio quello mi rendeva a quegli occhi un poco dubbio … ero un ergastolano, dopotutto.
Avevo però, da un po’, conosciuto una ragazza, che pareva fidarsi un poco di me: sulle prime
non si era mostrata molto convinta, piuttosto era stata forse più lunatica delle altre.
Tuttavia, in lei qualcosa c’era di diverso.
Così almeno pensavo.
Ci vedevano una o due volte al mese e non facevano che parlare e parlare … in verità, ce ne stavano là, seduti l’uno di rimpetto all’altro, pensando di voler fare tutt’altro.
Ad ogni modo, poi finiva.
Tornavo dunque a sedere sulla panca. Mi stringevo le mani tra le cosce e, sovrappensiero, cominciavo a dondolarmi con la schiena: non riflettevo però della mia storia con la ragazza, continuavo anzi a rimuginare sulla mia vita. A quando dall’uso delle mani, ero passato a quello delle armi: dalle rapine all’omicidio, la via era stata breve.
Mi accadeva di farlo quando non avevo ancora diciotto anni. Ma non per quello mi sentivo un barbaro o un malvagio. Niente affatto, era stata quella legittima difesa: perlomeno, in quel modo mi rassicuravano i grandi. Dipoi dalle nostre parti era detto: “o ammazzi o ti fai ammazzare”, ed io facevo il possibile perché ciò non accadesse. Tanto ero accorto che non mi si vedeva mai passeggiare per la piazza, mettere piede in un bar, né giammai entrare giusto dal barbiere; vedete, il rischio era appunto quello di prendere una fucilata sulla faccia. Tuttavia, non pensiate che quello mi tenesse troppo sulle spine, anzi, per taluni aspetti, lo credevo persino naturale: alla galera sentivo semplicemente di essere destinato, mentre alla morte sapevo di potere scampare fintanto che la scaltrezza, ma più ancora la fortuna lo avrebbe permesso.
Smettevo allora di dondolarmi e cominciavo, invece, a scrollare la testa: quali farneticazioni avevano a quel tempo affollato la mia giovane mente!
Non io, mi dicevo, dovevo essere rinnegato dalla società, ma quella mentalità perversa e funesta, che aveva sorretto le fondamenta della esistenza!
Poi, come morso da una tarantola, balzavo in piedi, facevo due passi in avanti, ruotavo quindi su me stesso e facevo pertanto altri due passi: la porta rimaneva ancora bella sprangata.
Possibile mai che mi lasciassero ad aspettare per tutto tempo? Mi chiedevo, tornatomi il dubbio che mi avessero per davvero scordato colà! Non che prima non lo credessi, ma buon
Dio, come potevano averlo fatto! Poggiavo quindi l’orecchio contro la gelida lastra di ferro della porta e mi concentravo ad ascoltare: non fiatava una mosca!
Bah!
Era passata un’ora!
Che fare?
Allora, decidevo e battevo con il pugno due volte: chissà mai qualcuno, si convincesse a guardare! Attendevo un momento e, in assenza di una risposta, tornavo a sedere.
Sistemavo bene il gomito sulla coscia e con la mano mi trattenevo disperato la fronte: per me, ovviamente, c’era stato poco da fare. Appena compiuti vent’anni non ero finito ammazzato, per mia fortuna, ma dritto, dritto ero stato condotto in galera.
Ma io quella con Dignità e onore la sopportavo!
Non per nulla avevo per idolo Peppino u Malpassotu!
Che minchione!
Chi, il Malpassotu? No io, null’altro che io!
Del Malpassotu poteva dirsi difatti di tutto, tranne essere un minchione, perché lui di farsi la galera non ci aveva pensato manco un istante: mi pento, mi pento di duecento omicidi! – aveva gridato al giudice appena il giorno appresso il suo arresto!
Alla faccia della dignità e dell’onore!
Ma il Malpassotu era uno sbirro! Uno che l’infamia l’aveva nel sangue! Un verme mascherato d’uomo! Un tragediatore nato e cresciuto! Non poteva che essere in quella maniera, solo che non lo si sapeva!
Ah, queste ed altre ne avevo trovato a quel tempo di ragioni, per consolarmi della delusione!
Eh, però, il Malpassotu avevano poi emulato in tanti: centinaia, migliaia! Anche gli amici miei lo avevano fatto: ma non il mio cane, lui, poveretto, moriva appena qualche anno più tardi il mio arresto.
Decidere di collaborare con la giustizia, per avere uno sconto di pena, quella poteva certo dirsi una scelta. Ma non di sicuro nascere in una data famiglia, crescere in un certo contesto ambientale, formarsi caratterialmente in una maniera anziché un’altra! A scegliere in tal senso, era, a mio vedere, non altro che un compendio di combinazioni del tutto indipendenti dalla volontà umana.
A quell’ennesima considerazione, sospiravo: continuavo a meditarci sopra, vedete, ma mi sentivo stanco, soffrivo, in verità, a farlo così spesso.
Però, di acqua ne era passata sotto i ponti dacché il Malpassotu si era pentito: tanta che avevo passato da allora altri tredici anni di carcere!
Io, disgraziato per natura, non mi pentivo: non quella via sceglievo per riguadagnare la libertà
… ditemi fesso, ma quello decidevo.
Tuttavia, non trascorrevo quegli anni di prigionia con le mani in mano, infatti, mi diplomavo, cominciavo gli studi universitari, mi dedicavo alla poesia, alla scrittura e, ancora, analizzavo e criticavo il mondo attorno a me e soprattutto la mia stessa persona … per quanto mi era detto un giorno di farlo inutilmente.
“Avrebbe dovuto pensarci prima”, aveva ritenuto opportuno rispondermi un giovane vice comandante, un giorno che mi lamentavo di non avere data la possibilità di sfruttare le mie attitudini intellettuali e creative.
Pensarci prima: ma prima, quando?
Magari tra una sparatoria e l’altra?
Ecco, ritenere tardivo l’impegno di un detenuto a migliorarsi, rappresenta, secondo me, per intero l’errore del disastroso e fallimentare progetto di recuperare alla società i soggetti deviati: considerare inutile il tentativo di riscattarsi dalla realtà che li ha cresciuti tali è , infatti, il sistema migliore attraverso il quale rigettarli tra le sue braccia.
Mi rammaricavo appunto di quello, prima di sbuffare: ora basta!
Al che, balzavo in piedi e levavo il pugno per battere di nuovo e forte alla porta, ma giusto allora quella si apriva.
L’agente, a vedermi pronto a picchiare, faceva lesto un passo indietro, poi esclamava: “Oh … e che cavolo, un momento di pazienza, no!

Salvatore Torre, fine pena mai

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