K.mi scruta. Non sa se fidarsi di me. Mi pesa con gli occhi come se fossi una forma di formaggio stagionato. I suoi occhi sono luminosi, attenti. Vuol capire subito chi le sta di fronte. Vuol capire subito se sono una persona autentica o un tarocco. K. Mi analizza attentamente. Guarda le scarpe, la borsa, i vestiti. E poi mi aspetta al varco. Mi fa domande. Parecchie domande. Anche le altre vorrebbero farmi delle domande. Stanno tutte sondando il terreno. Capire chi hanno davanti agli occhi. Chi è questa persona nuova in mezzo a loro. Vogliono capire se io, la fantomatica scrittrice di origine africana, sono una persona a cui possono affidare la loro vita almeno per qualche ora. Io naturalmente ho un piano. Certo l’ho cambiato mille volte, ma ho un piano. Peccato che abbia sbagliato completamente le scarpe. Quando viaggio spesso metto quelle sbagliate in valigia. Sono troppo scomode queste qui. Le odio! Fuori piove. Sono scarpe con i tacchi, io che non li metto mai. No, non sono adatte a nessun posto. Ci sono già caduta due volte con queste scarpe. Le dovrei buttare. Ma sono troppo belle. E volevo essere bella, almeno la prima volta, per le ragazze della Casa Circondariale Lorusso e Cotugno. Dopotutto sono stata adottata. Ci tengo a far bella figura.
In realtà questa parola mi agita: Adotta. Una semplice parola che per me ha assunto quasi da subito le sfumature di un giuramento cavalleresco. Adotta uno scrittore. La scrittrice sono io e l’adozione è il progetto del Salone del libro che porta gli scrittori italiani in giro per le scuole del Piemonte. Io sono finita in una scuola particolare. La scuola della già citata Casa Circondariale Lorusso e Cotugno, sezione femminile. Ed ecco che da quel si bello sonoro detto di fretta al telefono ai rappresentanti del salone, a quell’accettazione quasi burocratica, ora mi trovo davanti a K. Dentro un carcere. Con me la dolce insegnante maceratese-siriana Hadil Taraki e Augusta Giovannoli del Salone del libro. Sono i miei angeli custodi loro. Mi danno informazioni su tutto. Mi danno coraggio. Mi dicono “vedrai ti aspettano le ragazze”, “Vedrai sarai brava”. E poi ci sono Vincenza, Anna. Anche loro sono angeli custodi. Le vedo. Anche loro mi danno consigli. Sembra un sogno, ma Tutto sta diventando vero. Sono davvero alla casa circondariale. Una realtà che non avevo mai immaginato di vivere eccola lì pronta a sorprendermi. Ancora prima delle domande di K., ancor prima del suo sguardo, sono stata io stessa a chiedermi: sarò degna di essere adottata? Non è mica uno scherzo quella parola. Presuppone uno sforzo, un’intimità, una relazione, una vicinanza. Sarò capace di creare tutto quello che contiene la parola adottare in così poco tempo? Sarò davvero all’altezza? Ed ecco che dopo i controlli, le scale, la conoscenza delle professoresse arriva K. con le sue domande, le ragazze con la loro curiosità.
Sono seduta lì di fronte a loro. Ho accantonato da tempo il mio piano di parlare di “Adua”, del mio romanzo. Con quella classe devo fare un lavoro diverso, dico a me stessa. Me lo sono detto per giorni. Ho preso appunti su cosa fare, come farlo e soprattutto come dirlo. Mi sono esercitata davanti allo specchio, parlando ad alta voce come se avessi davanti un pubblico reale. Ho vissuto quella situazione mille volte, in sogno e in veglia. Ma niente mi aveva preparato allo sguardo di K.
E niente mi aveva preparato a D., a O e alle altre ragazze. Rispondo a K. E poi parto con il mio piano. Adua se vorrò la tirerò fuori dopo. Ora dobbiamo costruire la nostra relazione. Voglio che si fidino di me e io di loro. Ed ecco che prima di partire con la scrittura, le strategie, le letture…ecco prima di partire con tutto decido di raccontare la mia storia, quella di mia madre, di mio padre, dei somali. Ed ecco che i nodi di un vissuto si intrecciano ai loro vissuti. L’esilio, la perdita, la guerra, mia madre che non ha potuto studiare e che non sa scrivere, mia madre che legge poco e che anche i miei libri li legge a stento, mio padre e la sua carriera politica, la dittatura e l’emigrazione, i padroni di casa e le bollette che scadevano sempre. E poi come ci siamo rialzati da tutto questo, di come ricostruirsi una parvenza di vita reale. E per stare un po’ allegri parlo di cibo, di feste, di schiamazzi. Spiego, citando Chimamanda Ngozi Adichie e il suo splendido Americanah, perchè le donne nere amano Barack Obama. Perchè ha sposato una di noi, una nera, alta, massiccia, muscolosa. Non una diva longilinea qualsiasi. Michelle occupa spazio. Michelle è nera davvero. Nera nerissima e per lui è una dea. Le ragazze ridono.
Rido anch’io. Ridiamo di gioia. Perchè tutte un po’ pensiamo che un Barack Obama prima o poi sposerà una come noi.
Scopro che la mia vita ha dei punto in comune con la loro. E da lì che sono partita a creare la nostra relazione. Le cose che abbiamo in comune ci hanno unito.
Parlo. Rido. Leggo. Rispondo. Tutto avviene in simultanea.
E anche loro parlano, ridono, leggono, rispondono.
K. continua a far domande. K. Continua ad analizzarmi.
Ma poi mi accorgo, e quasi un lampo impercettibile, che gli occhi di K. Si colorano di arcobaleno. Sono stata adottata. K. Mi ha adottato. Sono felice. Missione (quasi) compiuta.
Queste sono le parole che ho scritto in treno dopo aver fatto il mio primo incontro per adotta uno scrittore alla casa circondariale Lorusso Cutugno. È stata una esperienza formativa enorme per me. Ho conosciuto splendide insegnanti e splendide studentesse. Ci siamo scambiati storia, scrittura, vita. Andare in carcere non mi ha mai davvero preoccupata. Ho fatto altre esperienze in passato con i miei libri e da un po’ di anni seguo il lavoro della Compagnia della Fortezza nel carcere di Volterra con detenuti di lungo corso. Superare quel confine mi è capitato di farlo altre volte. Non dico di essere preparata, questo no, forse non lo sei mai, ma quanto meno sono abituata all’idea. Ero più preoccupata per l’adozione a dir la verità. Come ho scritto in quei miei primi appunti iniziale la parola adozione nascondeva in se un grado enorme di responsabilità. Dovevo essere all’altezza. Anna Treves, una delle insegnanti, mi aveva previamente avvertito che non tutte sapevano l’italiano e che leggere Adua sarebbe stata un’impresa ardua. Mi ha chiesto di portare dentro la loro esperienza quotidiana la mia. Io ho colto il suggerimento al volo e attraverso un po’ la mia vita e un po’ la vita del mio romanzo, ho cercato di creare insieme a loro un percorso di scrittura, che spero continueranno autonomamente con le loro insegnanti.
I loro racconti e le loro poesie trasudano umanità, genio e amore per la vita. C’è tutta la sofferenza, l’allegria, a volte anche il cinismo che attraversano quotidianamente. Ma in tutti i loro scritti (che potrete leggere nel sito) c’è la vita che non deve e non può essere ignorata. La vita con la sua voglia di azzannare il futuro e ricrearlo più bello. Scritti che strappano il cuore e che dietro la loro apparente semplicità lacerano l’anima come poche cose al mondo.
Io ancora non so chi è stato adottato, se io o loro, ma so che abbiamo passato (io, le studentesse e le insegnanti) una parentesi fruttuosa che ci porteremo da qualche parte nel futuro.
Igiaba Scego
Vi invitiamo a leggere i lavori prodotti dalle studentesse della Casa Circondariale Lorusso Cotugno che hanno adottato Igiaba Scego
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