Nadia Terranova adottata dall’Istituto di Istruzione superiore Soleri Bertoni di Saluzzo, dall’Istituto di Istruzione Superiore Arimondi Eula di Savigliano e dalla Casa di Reclusione Rodolfo Morandi di Saluzzo
Entro in carcere fresca di ri-pensieri su un libro che, a suo tempo, ho molto amato: “Il corpo docile” di Rosella Postorino. Lì la prospettiva era tutta femminile, qui oggi è tutta maschile. Non so perché, ma qualsiasi cosa possa scrivere sull’esperienza con i detenuti mi suonerebbe falsa (forse è per questo che ho così amato quel libro, il suo coraggio, la sua verità). Ho l’impressione che non ci riuscirei, le parole si fermerebbero un attimo prima, cosa vuoi dire di nuovo, di più, di meglio? Tu che non ci lavori, tu che ci entri protetta e bardata dal tuo libro. Preceduta dal tuo libro, presentata dal tuo libro. Quando entro al carcere di Saluzzo, io sono il mio libro, più che altrove. Ci sono due incontri quella mattina: uno a scuola, a Racconigi, e un altro in carcere, a Saluzzo. In entrambi i casi ci sono le domande, le curiosità, le analisi, le critiche, le osservazioni – fino al giorno prima pensavo che avrei contato le differenze, invece vado per isomorfismi. Di qua ci sono loro – persone che hanno letto e vogliono sapere – e di là ci sono pure loro – sempre persone che hanno letto e vogliono sapere. Ma è il giorno dopo la vera festa, quando il pullman della scuola mi viene a prendere e si va tutti insieme in carcere. “Sai, per i ragazzi sarà un po’ forte”, mi avvisa un’insegnante (quanto sono brave certe insegnanti, quanto?). Sicuramente è vero, ha ragione. Io però non penso così, io penso come una che scrive romanzi, ovvero: se non è forte non mi interessa. E siccome quel giorno io sono il mio libro, sono lì con tutta me stessa, a respirare quell’aria di sospensione, io che ho scritto un libro sulla sospensione. Come posso stare di fronte a loro? Non posso stare dietro la cattedra, non posso stare davanti alla cattedra: non posso dire che ho qualcosa da insegnare, ma non posso far finta di non aver nulla da dire. Allora salgo sulla cattedra, mi ci siedo, le gambe penzolanti, come un’adolescente, come una che ha qualcosa da farsi perdonare, come una sfrontata. Quando siamo tutti insieme, i ragazzi e gli adulti, e quando tutti insieme parliamo dei personaggi come fossero veri, ho l’impressione che anche la mia vita sia vera un po’ di più.
Non spenderò altre parole per raccontare questo o per raccontare loro, perché i libri lo raccontano sempre meglio (tornerò a rileggere “Il corpo docile”, quello sì), però posso raccontare il dopo: tre teglie di biscotti (“questi li abbiamo fatti noi!”) e una teglia di biscotti comprati, e quelli comprati non li ha mangiati nessuno. Volevamo tutti le cose fatte da loro, era una festa, piena di pagine e di riflessioni, con i ragazzi mischiati con gli adulti, i primi con così tanto futuro, i secondi con tutto quel passato. Cosa tenere cosa buttare, recita un mantra del mio libro, e forse ognuno di noi che era lì ci ha pensato, ci pensava. Cosa tenere cosa buttare – della propria vita. In carcere è una domanda pesantissima, a scuola è una domanda piuma. Per me, non l’ho ancora capito. Io, comunque, di “Adotta uno scrittore” tengo tutto. Tutto, proprio ogni virgola, e qui lascio il mio grazie.
Nadia Terranova
I lavori degli studenti che hanno adottato Nadia Terranova (laboratorio di scrittura, di discipline artistiche di arti pittoriche)
E ancora la videopillola dedicata a Nadia Terranova
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