“Lei sa come odio le lettere. Tutta l’infelicità della mia vita (…) proviene, se vogliamo, dalle lettere o dalla possibilità di scrivere lettere. Gli uomini non mi hanno forse mai ingannato, le lettere invece sempre, e precisamente non quelle altrui, ma le mie. (…) Come sarà nata mai l’idea che gli uomini possano mettersi in contatto fra loro attraverso le lettere? A una creatura umana distante si può pensare e si può afferrare una creatura umana vicina, tutto il resto sorpassa le forze umane. Scrivere lettere significa però denudarsi davanti ai fantasmi che ciò attendono avidamente. Baci scritti non arrivano a destinazione, ma vengono bevuti dai fantasmi lungo il tragitto. Con così abbondante alimento questi si moltiplicano in modo inaudito. L’umanità lo sente e li combatte.”
Per Kakfa la colpa di aver portato nel mondo uno “spaventevole scompiglio delle anime” era da attribuire alla facilità di scrivere lettere, medium comunicativo disumano. Impossibile far fronte a quanto sarebbe inevitabilmente andato perduto nello spazio tra i contatti mancati dei corpi, impossibile determinare cosa ci resta da attribuite alle esperienze reali. Al cospetto di un evento e un pugno di libri virtuali, spesso considerati una mera degenerazione della carta, possiamo effettivamente parlare di alienazione dei corpi? È alla luce di queste considerazioni che non possiamo fare a meno di chiederci che cosa penserebbe Kafka oggi, davanti noi, sciame di spettri che fagocitano informazioni incorporee.
Non si aspetta che ne comprendiamo il senso, si sottrae al pensiero, non pone un oggetto da leggere: diffondendosi in rete come un’epidemia, la comunicazione digitale ci consegna alla consapevolezza del fatto che non interpretiamo più. Semplicemente, è più comodo assecondare l’oscurità del contagio e la provvisorietà di immagini consegnate al consumo, restando nascosti nelle pareti del digitale. L’appiattimento della percezione ci lascia anestetizzati difronte ad un’esperienza mancata, al mero presente che deve essere in primis bello, buono e condivisibile. Ma non è stancante? Andare (potenzialmente, solo se hai accesso ai mezzi per farlo) ovunque e non avere nulla da raccontare?
Questa veloce proliferazione pandemica di cui vi sto parlando si riscontra anche rispetto al virus del linguaggio. Secondo il pensiero di William S. Burroughs, la parola è «l’unica caratteristica di identità del virus: un organismo senza altra funzione interna che quella di replicare sé stesso»: un’unità che cerca di riprodursi e diffondersi in continuazione, annulla il proprio senso e diventa semplicemente segno tra i segni, senza un vero oggetto cui fare riferimento. Continua in The ticket that exploded: “La parola è un virus. Forse il virus dell’influenza era un tempo una cellula sana. Ora è un organismo parassita che invade e danneggia il sistema nervoso centrale. L’uomo moderno non conosce più il silenzio.”
Se c’è stato un tempo in cui il virus dell’influenza era una cellula sana, io non lo so. Quello di cui sono sicura è che noi, come gli uomini moderni, il silenzio non lo conosciamo più, e va bene così. Questo Salone ci ha chiesto il conto, ci ha fatto rivolgere verso i suoi predecessori, ci ha parlato di un passato che abbiamo vissuto e di ricordi che sono soltanto nostri. È per questo che mi sono voluta aggrappare alla vera bellezza, mai scontata, alla grazia efficiente, alla cura per tutto ciò che è piccolo e vale, all’attenzione nell’opporsi alla corrente, trovare il bello e affidarlo al linguaggio.
Ho cercato e trovato un linguaggio che non si è mai arrotolato su sé stesso per ingannare il fruitore, non si è mai accontentato di una diffusione banale, ha richiesto sforzo, si è aperto ed è diventato accogliente. Forse la sua grandezza, quella in grado di cancellare la supposta inautenticità della sua diffusione digitale, sta proprio nell’offrire dei contenuti limpidi che non vogliono veicolare nient’ altro oltre sé stessi. Strano, vero? E invece, si staglia nella sua comunicazione cristallina, nelle traduzioni chiare, nella possibilità di confrontarsi con gli ospiti, perché non potremo alzare le mani, ma quello che ci frulla nella testa è importante e dobbiamo avere la possibilità di esprimerlo. Instilla sete di cultura e curiosità, ci mostra un senso nudo, e se non riesci a coglierlo subito non importa, resteranno le parole e le nostre interpretazioni.
Complice la forzata distanza, credevo che in questa edizione extra avremmo inevitabilmente compromesso qualcosa, ero sicura che anche solo la mancanza della polvere del Salone avrebbe potuto svalutare l’esperienza che (non) stavo vivendo. Ho invece provato una fitta di gioia nel constatare che la mia anima era in scompiglio, che i pensieri erano tutti vividi e reattivi nella mia mente, che stavano sopravvivendo e che le parole che sentivo li stavano alimentando. Ai miei occhi quello che conta sono gli strumenti che ci fornisce per modellare la resistenza del mondo che ci circonda, la consapevolezza necessaria a vedere e filtrare il reale, perché anche se tutti i nostri progetti possono assomigliarsi, sono le nostre idee a renderci vivi.
Credo che dovremmo ricominciare dalla cultura come conversazione colta, incontro, scoperta, dubbio e assumere come fondamento questa spasmodica ricerca di un sapere sano.
Credo che dovremmo ricominciare dai visi scolpiti dalla meraviglia davanti agli schermi, dalla consapevolezza che, se c’è una cosa che questo Salone arruffato ci ha insegnato, è che siamo presenti a noi stessi e alla nostra vita. Umani, siamo umani: possiamo non sapere cosa dire ma sappiamo cosa sentire.
Oppi Laura – studentessa del Liceo Ludovico Ariosto di Ferrara, galeotta e bookblogger nel cuore
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