“Tom! Tom! Muoviti, vieni ad aiutarmi” lo chiamò il nonno. Correva veloce, i calzoncini gli erano larghi e gli scivolavano dalla vita così stretta, ma non poteva fermarsi neanche un secondo, i battiti del suo cuore scandivano il tempo e gli ricordavano che il riposo non era per lui. Il riposo, quella bella parola astratta, era concessa solo a loro, ai tedeschi. Il nonno lo aspettava, ricurvo su una panchina, dove doveva separare i denti d’oro da quelli in argento, anche lui non poteva fermarsi. Il tedesco non li guardava, Tom poteva e doveva aiutarlo. Le sue manine erano gracili e ossute, fin troppo per un  bambino di sei anni, adatte però a penetrare nelle insenature più piccole. Così grazie alle sue dita i due riuscirono a recuperare un dente caduto in una piccola fessura della panchina. A Tom però mancava il papà, ma dov’era finito? Era ormai passata una settimana dall’ultima volta che l’aveva visto, o meglio, riconosciuto a stento visto il viso sporco e denutrito, ma almeno era lì con lui. Il papà di Tom, il signor Walter Catter, era un uomo colto, “l’istruito” veniva chiamato. Lui si che lavorava, di giorno per i tedeschi e di notte per gli internati: la sua mente era una macchina di lavoro instancabile, una volpe sempre attiva, alla ricerca di un motivo di sopravvivenza: la sopravvivenza degli altri. Catter viveva per liberare tutti quelli come lui, ebri, rom, omosessuali, disabili, insomma tutti coloro che potevano sporcare quella razza così perfetta, chiara, bionda, sicura ed efficace, ma estremamente cattiva. Nessuno aveva mai capito che per essere “perfetto” si doveva essere anche “cattivo” eppure, dicono i cristiani, “perfetto” è stato solo uno, il figlio di Dio. Così Catter diceva di voler dimostrare ciò che i tedeschi non sanno leggere dal dizionario: il vero significato di “perfezione”. Lui di certo non lo era, non poteva essere, era stato un padre neanche troppo bravo, un figlio esuberante e vivace, ma di una cosa era certo, quella che veniva spacciata per tale non era perfezione. Lui doveva combattere la sua lotta privata, la sopravvivenza di migliaia di persone e soprattutto quella di Tom,  quel magnifico dolce e gentile bambino, il suo bambino. Gli altri del campo lo chiamavano Rom, e lui, nell’ingenuità dei suoi sei anni, credeva fosse semplicemente un difetto di pronuncia, ma la triste verità è che loro appartenevano a una razza sporca, infetta: la razza Rom. Zingari in gergo, zingari con disprezzo. Catter non aveva mai avuto problemi a definirsi tale, ma non voleva che suo figlio sentisse quelle sciocchezze, pregiudizi fondamentalmente, identificati come ladri e pedofili; preferiva raccontargli la sua versione. Fu proprio in quella notte, che decise di rischiare la sua vita per regalare a Tom la sua verità, la verità sugli zingari. Tom, al vedere il padre accanto al suo letto, saltò in piedi, mosso dalla gioia e dalla paura: se i tedeschi l’avessero visto, sarebbe morto. Ma Catter, impavido, si sedette accanto a Tom, il quale, ironia della sorte, gli disse “Papà papà, raccontami un storia, come quando eravamo lassù, tra le montagne”. Non poteva chiedere di meglio, Catter con felicità iniziò il suo racconto “Devi sapere che un tempo gli uomini erano coraggiosi e gentili, affrontavano bestie feroci, ma avevano un’attenzione particolare ai bisogni della natura. La loro arma migliore era il fuoco e il loro consigliere era il vento. Il vento indicava loro la strada da seguire, i posti da visitare, i giusti luoghi dove riposare e la via per trovare ruscelli limpidi, rinfrescanti. Il vento mostrava loro l’amore, portava tanti piccoli bambini come te ai loro genitori felici, e riuniva tutti gli amici in un solo gruppo, che insieme avrebbe seguito il vento. Uno di questi gruppi era quello di un signore che tu ed io conosciamo bene, Tom” “Quello del nonno?” “Esatto piccolo mio, esatto” e con quelle parole il piccolo Tom chiuse gli occhi, probabilmente sognando un soffio di vento che potesse portarlo via da li. Lo stesso vento lo sentì Catter, e gli mostrò il suo destino: quella sera, accanto alla rete di filo spinato che costeggiava la baracca di Catter, si presentò un uomo, il cui collo era avvolto in un fazzoletto rosso, un partigiano. Bastarono due parole “Domani, Resistenza” e Catter capì. Era il 9 Novembre 1944. In una sola notte la mente di quell’uomo disilluso dal terrore e dall’odio verso i tedeschi dette il massimo: organizzò una rivolta, la così detta “Resistenza” insieme ad un gruppo di 5 amici, nomadi. Il 10 Novembre 1944 furono uccisi 14 tedeschi nel campo, liberati 200 internati, tra Rom e Sinti, tutto merito di un uomo e la sua mente acuta. Ma ciò che lui non aveva calcolato era la vendetta dell’offesa tedesca. Ovviamente la voce girò velocemente, e giunse nelle orecchie sbagliate, così l’11 Novembre 1944 Catter fu fucilato, con il cugino Giuseppe Catter, Rubino Bonora, il Rom istriano Giuseppe Levakovich, Amilcare Debar. Quei quattro uomini fecero sì che altri duecento potessero sopravvivere con dignità.

“Mi piace sempre questa storia nonno Tom, il bisnonno era proprio un eroe” disse il piccolo Walter Junior accoccolato tra le braccia del vecchio. “Si, il tuo nonno era un eroe, e devi raccontarlo a tutti, nessuno deve dimenticarlo” riuscì a dire Tom tra le lacrime al ricordo di quei giorni. Era l’11 Novembre 2012, in quella stanza buia, dove l’unica luce che riusciva a fendere l’oscurità era quella della luna che penetrava tra le sbarre della finestra del Carcere minorile. Walter JCatter non capiva la crudeltà dei tedeschi, ma quel letto freddo e duro del carcere segnò la sua vita, esattamente come il campo segnò quella di Tom, sempre in attesa del verdetto. La loro unica colpa? È da più di 60 anni sempre la stessa: sono una razza pericolosa, non hanno dimora e sono troppo diversi da noi, accusati da qualcuno di “perfetto” di essere ladri o pedofili, insomma, indegni di questo mondo così “perfetto”.

Linda Fabbro 5M

Antologia della Memoria realizzata dai ragazzi del Liceo Scientifico Grigoletti di Pordenone