Romeo Castellucci, scenografo italiano e regista teatrale, in diretta dall’Arena del Sole di Bologna, tratta della dicotomia tra Inferno e Paradiso, in onore del settimo centenario dantesco.
Egli stesso premette di non essere un uomo di lettere, né uno specialista della Divina Commedia. Ma proprio la figura del poeta, che colloca se stesso al centro della sua opera, è stata la sua fonte di ispirazione per la realizzazione di un’opera teatrale ispirata alle tre cantiche. Dante è “arrogante” e “produttore di libero arbitrio”: è un artista estremamente inattuale, impensabile da rappresentare sul palcoscenico.
Il binomio teatrale Inferno-Paradiso che Castellucci decide di mettere in scena, in occasione del festival teatrale di Avignone del 2008, doveva inizialmente essere una trilogia, ma il Purgatorio, la cantica più vicina alla realtà per l’esistenza della dimensione temporale, si poneva in contrasto con gli altri due regni e per questo escluso. .
“Je m’appelle Romeo Castellucci”, così ha esordito lo scenografo, perché per dare inizio all’opera bisogna liberarsi del peso della propria biografia, che viene “sbranata” da tre cani feroci, proprio come le fiere che spingono Dante verso la condanna, ma anche la redenzione.
“Cosa sono io per l’Inferno di Dante?” “L’Enfer c’est les autres”. Castellucci rappresenta l’Inferno attraverso una mimica gestuale affettiva, per lo più composta da abbracci. Invece il Paradiso è dipinto inizialmente come una cattedrale gotica al cui centro è posto un pianoforte bruciato, da cui fuoriesce una cascata d’acqua, che simboleggia un pianto; nella seconda versione viene invece utilizzata una black box riempita con acqua tiepida. Quest’ultima incarna il tepore e la bellezza femminile, ma una volta che l’occhio si abitua all’oscurità, si viene sopraffatti dal terrore.
Come Virgilio per Dante, così Andy Warhol, nello spettacolo di Castellucci, viene scelto come guida perché ha saputo dipingere l’abisso della superficialità: l’Inferno non è necessariamente qualcosa di tenebroso o privo di figure, bensì proprio “il deserto delle immagini” e la comunicazione può essere il rumore bianco di questo fondale superficiale.
Ma quindi, esiste davvero questa dicotomia tra i due regni? La visione dei due mondi danteschi è antifrastica, il negativo afferma il positivo, l’Inferno è inclusione, il Paradiso è “minaccia per coloro che sono esclusi”.
Dante, espiando la sua colpa, compie la realizzazione dell’opera. Egli ammette la sua impotenza, rovesciando così “l’arroganza” del suo io iniziale e ammette infine di non essere capace di aver a che fare con il limite. Anche il grande poeta che spende energia si espone al pericolo e al ridicolo trovandosi accecato dalla luce abbagliante del Paradiso.
Chiara Flori, Nicole Rossi – Liceo Ariosto, Ferrara,
Francesco Fraccascia – Liceo Alfieri, Torino
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