Pordenone. 7 Marzo 2016. Ore 20.45.  Una serata piovosa. Il Convento di San Francesco si anima di persone che, nonostante la pioggia sono ansiose di assistere ad uno spettacolo tanto atteso. Il brusio diminuisce, le porte si chiudono ed entriamo nei ricordi e fantasie dell’autore. Inizia la magia.

Sullo  schermo appaiono dune di sabbia. Distretto 2. Sirte, regione Tripolitania, Libia. La musica tuareg ci accompagna in un’ atmosfera tetra. 63 anni fa nasceva Mu’ammar Gheddafi. Era solito seguire lo zio materno nelle escursioni nel deserto, un poeta senza gloria, un beduino di commovente umiltà. Il bambino adorava ascoltarlo. “Nel firmamento c’è un astro per ogni persona coraggiosa,gli dissi di mostrarmi il mio, mi indicò la Luna”. Da quel giorno essa fu sua, finché non cominciò ad abbandonarlo. Vede il suo potere assottigliarsi, come la luna piena che fa il suo corso e non diventa altro che poco più di un pezzo d’unghia, un graffio grigiastro.

“Finché sono vivo niente è perduto”, continua a ripetersi il colonnello, considerandosi un musulmano illuminato, per mezzo del quale si arriva alla salvezza. La voce di Fausto Russo Alesi si fa sempre più nervosa, minacciosa, roca e presa dalle emozioni. Porta in scena il personaggio principale con una tale maestria da invogliare gli animi a non averne mai abbastanza.

La voce degli attori ci accompagna al rifugio segreto di Gheddafi. Si trova in un edificio abbandonato nel bel mezzo del nulla, nel distretto 2. Le finestre della sua stanza sono oscurate. “Ce la faremo… riusciremo ad uscire da tutto questo e ad ammazzare i veri traditori della Patria”.

Racconta con parole di ghiaccio ma colleriche allo stesso tempo le sue ultime ore di vita, i delirii, i sogni che portano a galla solo ricordi amari di un’ infanzia segnata dalla povertà, di un primo amore tanto sublime quanto doloroso e delle centinaia di donne seguenti, da conquistare come territori ribelli. Come in una partita a Risiko.
Gli attori che interpretano i ruoli dei comandanti, della gente comune e dei militanti lasciano a bocca aperta. Il fiato sospeso e le membra sconquassate. Dopo una lunga chiacchierata con il comandante Mansour Iddhow, un altro incubo annebbia  la mente del colonnello. Si trova in una grotta. C’è freddo. L’eco delle sue paure si abbatte sul suo animo. Arido, frantumato ma ancora sicuro. La voce  del fantasma di Saddam Hussein lo incalza “ Non ci sarà nessun Dio a salvarti”. Gheddafi però ribadisce a se stesso  “Io non sono un Dittatore. Sono un essere Superiore”.

“Sirte, mi hai davvero deluso”. L’attore  si abbandona sulla sedia. La sua voce porta angoscia nei nostri cuori.

Gheddafi insieme ai suoi fedeli si mette in marcia. L’avanzata dei nemici è cominciata. Nascosto come un topo di fogna all’interno di una condotta di drenaggio, viene sopraffatto da ansia e nausea. Egli si vergogna di essersi ridotto ad una preda, lui, a cui perfino l’infinito andava stretto: gli viene voglia di piangere e di gridare. Egli non si protegge, è sigillato nello stordimento. Si lascia andare alla deriva verso il suo destino, stranamente non ha paura, le sue emozioni si sono attutite.

Una personalità di leone costretta a crepare “nella propria merda”, schernito e braccato da un popolo che ha amato sinceramente, a modo suo.

La sola reazione di chi assiste ad uno spettacolo del genere dovrebbe essere quella del silenzio più assoluto davanti ad una morte così atroce, raccontata istante per istante, alternando momenti di disperazione e di speranza. Alla fine ci si può porre questo interrogativo: “Com’è riuscito l’autore, Khadra, a spingersi  nei  pensieri più intimi di un uomo tanto conosciuto per i suoi atti di barbarie e generalmente lontano da ogni possibilità di comprensione?” Ai lettori l’ardua sentenza.

Elena Villalta, Anna Camerotto, Camilla Canevese, Alice Pittau (IV H Liceo Grigoletti, Pordenone)

Con Yasmina Khadra dopo lo spettacolo.