Grazie a Giusi Marchetta per aver scritto questo racconto su La buona lettura. 

Sullo scaffale più alto della libreria mio padre aveva messo un’edizione in quattro volumi del Don Chisciotte. Le copertine blu con la scritta in rilievo rosso fuoco, la fierezza con cui si mostravano dritti sullo scaffale, sembravano ribadire il suo divieto di prenderli e sfogliarli. Che fossero un’edizione illustrata rendeva tutto peggiore. Avevo forse sei anni e una gran voglia di vedere don Chisciotte. Non c’era che una soluzione: mi sarei arrampicata e ne avrei preso uno. Facile, veloce. Neanche un furto, un prestito. La scrivania sembrava messa lì a posta: faticosamente l’ho usata per raggiungere uno scaffale, un altro e in un lampo la mia mano era già pronta a sfiorare la D del secondo volume. Non avevo considerato neppure per un attimo la marionetta di Orlando, messa lì a guardia della polvere e dei libri meno sfogliati di tutti. Un tipico pupo siciliano, col mantello rosso, l’armatura dorata, lo scudo e una piccola spada affilata. Con un unico strappo mi sono tirata addosso libro e marionetta e il dolore non ha fatto in tempo a esplodere che già eravamo finiti a terra tutti e tre: il libro aperto a metà, un cadavere con le braccia spalancate, Orlando con la testa piegata all’indietro e io incredula e sconfitta. Un taglio sottile attraversava il palmo della mano colpevole. Maledetto spadino.

– Che hai fatto?

Ho stretto il pugno, l’ho mandato a nascondersi dietro la schiena. Piccole gocce di sangue scivolavano tra le dita e andavano a schiantarsi sul tappeto.

– Niente.

Mio padre si è chinato prima sull’Orlando infortunato, gli ha sistemato la testa, ha raddrizzato il corpo; poi si è accorto del libro. L’ha preso in braccio attento a non chiuderlo, ha visto la macchiolina rossa sul bordo della pagina.

– Fammi vedere.

La mano, aperta, bruciava di più.

– È solo un taglietto. Vatti a sciacquare.

E intanto lui prendeva un fazzoletto, lo infilava tra le pagine, isolava la ferita della pagina e la guariva.

Non ho mai dimenticato quella cura. Me la ricordo tutte le volte che sto attenta a dove appoggio un libro o quando mi fermo a compiangere la copertina strappata di un classico sulle bancarelle. È una cura per l’oggetto che (se non è fissazione patologica) può essere considerata una certa estensione della cura per il contenuto. Consideriamo il libro un oggetto di valore e quindi gli concediamo uno spazio nelle nostre vite che è fisico perché prima ancora è affettivo.

Ma quale tipo di cura traspare da alcune biblioteche scolastiche? Cataloghi vecchi, messi insieme grazie a una beneficenza cieca che dona libri non adatti, in formati poco leggibili, magazzini di libri dove arraffare ogni tanto qualche titolo buono da portare in classe.

In questa incuria purtroppo non si legge solo una crisi economica che ha pesato soprattutto sull’istruzione, ma una scelta deliberata da parte di chi non tiene in alcun conto il libro e quello che significa.

Non è necessario disprezzare apertamente la lettura: con le nostre biblioteche stiamo dicendo ai ragazzi che leggere è una cosa superflua e che i libri hanno meno importanza dell’estintore o del menu affisso all’entrata della mensa. A questi studenti che, stando alle statistiche, a casa ne hanno meno di tre, non stiamo offrendo alcuna alternativa.

 

La base di qualsiasi forma di educazione alla lettura dovrebbe essere crederci davvero. Non avendo cura dei libri diamo esattamente l’impressione opposta.

Di questa forma di ipocrisia conviene liberarsi se vogliamo ottenere risultati. Riportiamo i libri nelle biblioteche quindi e poi in classe, in tutte le ore. Romanzi e racconti, ma anche saggi e fumetti. Rubiamo alle librerie l’idea dei suggerimenti di lettura affissi sugli scaffali. Attacchiamo ai muri le frasi più belle, i nomi degli scrittori più amati. Rendiamo la biblioteca un posto dove noi stessi andiamo con piacere, non un optional di alcune fortunate realtà, ma una parte integrante della scuola, la cui presenza è scontata perché necessaria.

Giusi Marchetta