Allo spazio autori del Salone del libro il pubblico presente ha avuto l’opportunità di ascoltare le parole di Catia Pellegrino, ex-comandante di una nave della marina italiana. Nel 2013, all’età di soli 36 anni, questa ragazza ha preso parte alle operazioni di salvataggio dei profughi arrivati via mare dalle coste dell’Africa e ieri, 15 maggio 2015, ha raccontato i momenti più critici a bordo di Libra, la sua nave. L’incontro è stato diretto da Mauro Parissone, direttore di h24, l’agenzia che si occupa di raccontare frammenti di storia del nostro paese attraverso la realizzazione di film e documentari.
Spesso in televisione scorrono le immagini dei salvataggi in mare, ma purtroppo non sono mai chiare, perché i telegiornali le accompagnano con spiegazioni molto sintetiche, lasciando quasi in incognita tutti “gli omini” inquadrati dalle telecamere nell’atto di passare da imbarcazioni più piccole a imbarcazioni più grandi, senza che nessuno si preoccupi di raccontare l’impegno e i rischi che ci sono dietro a queste operazioni.
La scelta di Catia (Mondadori), il libro presentato durante l’incontro, è un’immediata conseguenza dei tanti film-documentari che l’agenzia ha realizzato con l’intento di colmare proprio questa carenza di informazioni riguardo agli interventi della marina militare. Esso parte dal racconto del salvataggio di circa 250 profughi, risalente al 3 ottobre 2013, ma l’autrice, Catia Pellegrino, spazia parlando anche della nave in sè, dell’equipaggio e della cultura navale italiana.
Per prima cosa Catia spiega come in mare si possa misurare il grande cuore del nostro Paese: secoli di navigazione hanno insegnato ai marinai italiani che in mare non ci si può mai girare dall’altra parte. Un marinaio, o nel caso della ragazza, un comandante, non può mai far finta di niente, non può permettere che degli uomini muoiano in acque ostili perché lui non ha offerto loro il proprio aiuto.
È proprio su questa muta legge del mare che si basano tutte le operazioni di soccorso per i barconi africani e, nonostante tutti si lamentino della situazione critica che l’Italia fino a qualche mese fa si trovava ad affrontare da sola (ora qualche aiuto sta iniziando ad arrivare), la marina militare ha sempre dimostrato un grande impegno e un’alta professionalità, per garantire la sopravvivenza a più persone possibili.
L’ex-comandante inizia poi il suo racconto sulla giornata del 3 ottobre, cercando di far capire al pubblico in quale clima si siano svolti i soccorsi e quanta lucidità occorresse avere per prendere in brevissimo tempo decisioni che avrebbero influenzato la vita di molte persone, sia profughi che marinai italiani.
Ricorda quel giorno come un’esperienza estremamente significativa, sia dal punto di vista morale che dal punto di vista delle enormi responsabilità che lei aveva, essendo allo stesso tempo al comando della propria nave e, per ordini superiori, coordinatrice delle operazioni di soccorso. Racconta di come non potesse fermarsi a pensare, di come la vista di tante persone in difficoltà e la consapevolezza di aver poco tempo per salvarle le abbiano dato quella scarica di adrenalina che le ha permesso di rimanere lucida e portare a termine le operazioni senza creare problemi all’equipaggio di nave Libra.
Il libro, forse ancora meglio di un racconto orale, riporta gli avvenimenti accaduti descrivendo bene i minuti intercorsi tra le singole diverse decisioni e seguendo una scansione temporale molto accelerata, in modo da rendere l’idea dell’urgenza che i soccorritori avevano, per riuscire a salvare il maggior numero di migranti.
L’incontro è stato così ricco di spunti che meritava davvero di essere seguito: Catia apre una parentesi sulla nave, su come essa sia di fatto una piccola città e, soprattutto, abbia una sua anima. Ogni nave vive attraverso il proprio equipaggio, attraverso le persone che la abitano. All’ex-comandante è capitato spesso di parlare alla sua nave, nave Libra, pregandola di “non deluderla” nelle situazioni più critiche, chiedendole di rispondere positivamente anche alle manovre più pericolose, di superare tutti gli ostacoli e riportare sempre l’equipaggio salvo a casa. Sono molto i ricordi della ragazza legati ai 14 mesi passati al comando di Libra, con un equipaggio di soli uomini. Dice di essere stata contenta perché nonostante all’inizio ci fosse qualche scettico, più maschilista degli altri, alla fine si sono tutti ricreduti e si è creato un clima sereno e costruttivo in cui vivere e lavorare.
L’ultima cosa, che più volte Catia tiene a precisare, è che quando le chiedono cosa abbia provato ad essere un comandante donna non sa mai cosa rispondere. «Nel fare il comandante di marina si prova un grande orgoglio, è un ruolo di grande onore personale» dice «Ma l’orgoglio non ha genere». Per gli stessi suoi uomini lei è sempre stata “il comandante”: è un ruolo che va ben oltre al genere della persona che lo occupa.
Sara Tavella, Liceo scientifico Copernico
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