Nel 1947 Primo Levi si impose sulla scena letteraria mondiale attraverso la narrazione intimista della sua esperienza a Monowitz di Se questo è un uomo. Eppure durante e dopo la tragedia dell’Olocausto se ne consumava un’altra, seppur di proporzioni ridotte nelle lande desolate dell’estremo nord e oriente della Russia: quella dei gulag e dei campi di lavoro. Zachar Prilepin, autore russo veterano della Guerra in Cecenia e membro del Partito Nazionalbolscevico, col suo romanzo Il monastero, racconta la storia del bisnonno Artëm Gorjainov in uno di questi campi di lavoro, quello delle Isole Solovki, usato come centro di “rieducazione” per le più diversificate categorie sociali. Intervistato da Alessandro Barbero, Prilepin è stato dunque protagonista del dialogo riguardo il suo libro, in un’affascinante conversazione incentrata più sulla modalità di scrittura che non sui contenuti in sé.

L’autore ha attentamente illustrato il suo modus operandi ponendo il focus sull’attenzione alle fonti storiche; quello di Prilepin è sì prodotto della sua penna ma basato su una documentazione estremamente accurata. Personaggi, luoghi, persino alcuni dialoghi, sono stati tutti fondati su di una ricerca archivistica rigorosa al limite del maniacale. Sorge spontaneo chiedersi il perché di tale attenzione, riscontrabile in una principale motivazione: il generale rifiuto di ogni tipo di mistificazione della storia. Rientra questo in una mentalità fortemente antropocentrica ed individualista intrinseca in Prilepin, per cui l’uomo, artefice del proprio destino e della propria natura, deve affrontare con tutti i suoi propri mezzi le difficoltà posteglisi innanzi nel corso della vita, anche al costo di scontrarsi coi propri simili.

Ma quella studiata da Prilepin è solo una versione della storia, quella effettivamente realizzatasi; cardine (e punto a parer mio più criticabile) della sua parabola sta nel concetto dell’intercambiabilità della storia, per cui ogni evento accaduto avrebbe potuto seguire vicissitudini differenti. Naturale conclusione di ciò sta nell’impossibilità per uno scrittore, per quanto attento alla veridicità dei fatti narrati, di porsi come “un avvocato o un procuratore” di una nazione o di un’associazione di uomini. Non per altro la frase più ripetuta da Prilepin è stata “la verità è quello che si racconta”, motto proclamato sempre con un tocco di cinismo al limite del Ministero della Verità di George Orwell.

Giovanni Sette, Piervittorio Milizia

Liceo Ludovico Ariosto, Ferrara