Guardo il finestrino di questo treno, guardo il paesaggio che cambia da città a campagna, dal verde rigoglioso al giallo secco. Vedo tutta la gente intorno a me, che mi guarda con tenerezza ma anche con infinita tristezza. Non avevo mai visto così tante persone in un treno, anche se devo dire di non essere mai stata in un treno merci. Alcuni piangevano, altri guardavano fisso. C’era un silenzio assoluto, quindi avevo paura di interromperlo per chiedere cosa stesse succedendo alla mamma. Sì, solo la mamma. Il papà non lo vedevo da un po’ e mamma mi ha spiegato che doveva fare un viaggio di lavoro ma che lo avremmo rivisto presto. Intanto io e lei dovevamo andare da una sua amica, Eva, perché aveva bisogno del suo aiuto. Io ero contenta perché era da un sacco di tempo che non uscivo più! Mamma diceva che era troppo pericoloso, e non andavo più neanche a scuola. Non che mi dispiacesse: c’erano alcuni bambini che avevano cominciato a trattarmi male e ad insultarmi da un giorno all’altro, apparentemente senza motivo, ma non ero la sola in questa situazione. Quando l’ho riferito a mamma mi ha detto di non preoccuparmi, che i bambini possono essere cattivi quando hanno paura del diverso e che io sono perfettamente normale, non dovevo avere nulla di cui vergognarmi. Alcuni giorni dopo ero già rintanata in casa, due settimane dopo papà è partito senza neanche salutare e poi mi sono trasferita da Eva. Almeno avevo qualcuno con cui giocare qui: Adam, con cui ho fatto amicizia. Già… Chissà in che treno è lui… Sono arrivati alle 2 di notte, ci hanno svegliato di soprassalto e ci hanno portato via di casa a forza, senza il tempo di fare nulla. Mamma gridava come indemoniata, la sua amica lo stesso, Adam mi ha preso per mano e ha tentato di portarmi via da lì, ma non siamo stati abbastanza veloci. Suo padre ha tentato di opporre resistenza ma è stato tutto inutile. Erano troppi. Cerco di chiedere alla mamma una spiegazione per tutto questo trambusto: Chi sono mamma? Perché ci trattano così? Cosa abbiamo fatto? Ma ha smesso di parlare, piange solo. Guardo la mamma che mi sta osservando, non so da quanto, con gli occhi lucidi, ma insiste nel suo silenzio e io faccio lo stesso. ‘Stavolta vinco io!’ penso. Mi abbraccia, ma continua a non dire nulla. Ad un certo punto il treno si ferma, la mamma comincia a tremare, le tengo la mano ma non sembra calmarsi. Un uomo in divisa apre le porte e ci urla di scendere, ma nessuno sembra volerlo fare e anche mamma rimane immobile. Poi comincia a trascinare a forza le prime persone e la situazione si mobilita. Un’anziana signora cade per gli spintoni ma nessuno si ferma ad aiutarla, allora mi stacco da mamma, che mi tratteneva, e la vado ad aiutare. Mi ringrazia ma non dice più nulla, io faccio per tornare da mamma ma non c’è più: in un secondo la folla l’ha trascinata con sé, senza darle la possibilità di opporvisi. Anche io vengo risucchiata in questa corsa, senza vie di scampo, per andare non so ancora dove. Allora torno dall’anziana, non molto distante, diventato il mio unico riferimento, e camminiamo silenziosamente fianco a fianco, in mezzo alla calca che si è portata via mia madre. Arriviamo ad un immenso cancello, con una scritta strana. Provo a chiedere all’anziana signora se sappia cosa voglia dire, la quale mi risponde che non lo sa ed è meglio così. Le persone in divisa ci dividono a gruppi, dove vengo strappata via dalla signora, anche se provo ad oppormi, e vengo messa insieme ad altre donne e bambine. Cerco la mamma ma non la trovo. Ci portano sgarbatamente in piccole stanze dove dobbiamo starci tutte e dove ci portano via tutto quello che avevamo addosso, vestiti compresi, senza dire una parola. Ci rasano e ci danno una casacca ruvida a righe: non posso fare niente perché smettano di trattarci così se non urlare e scalciare, il che serve a fare ben poco, se non a prolungare l’operazione. Cerco una risposta alle infinite domande che ho nei tanti occhi e nei tanti visi che mi circondano, ma nessuno sembra volermene dare o non sanno anch’esse cosa stia accadendo alla loro vita, che ormai sembra non essere più loro. E la conferma di ciò avviene quando ci imprimono un numero sul braccio, quel numero, il nostro nuovo nome. Tutto avviene troppo in fretta, tutto è troppo orrendo per essere vero e mi rifiuto di capire cosa stia succedendo, penso sia tutto un gigantesco incubo, ma la pelle bruciata da quella sequenza di numeri non lascia più spazio ad equivoci. Non sarò più io, una bambina, ma sarò un numero fra tanti. Comincio il mio lavoro, duro, faticoso e lungo, continuando a guardare fisso quello che sto facendo: non riesco a sopportare la vista di ossa che si muovono senza volontà, come gli zombi dei racconti horror, letti una vita fa. Ma piano piano, giorno dopo giorno, in una successione di eventi che si ripetono, mi sto abituando, perché sto diventando come loro, pelle e ossa, per la sola minestra che ci danno. Ho sempre fame e divoro come un animale tutto ciò che sembra commestibile. Quando qualcuno muore, nascondiamo il fatto per mangiare anche la sua razione. Sto dimenticando cosa vuol dire avere sentimenti umani, perché non venivamo più trattati come tali. Vedo solamente morte quando alzo lo sguardo, vedo che le malattie colpiscono chiunque, vedo i nazisti (perché è così che si chiamano le persone in divisa militare) che maltrattano tutti indistintamente se li vedono riposare un istante, se non fanno esattamente ciò che gli è stato detto di fare, o solo per il gusto di farlo. Come posso provare qualcosa che non sia solo dolore, fame e disperazione? Ma io continuo a sperare che prima o poi rivedrò la mamma, e sto resistendo per questo, nonostante tutto. Un giorno, non so quale, un nazista mi prende e mi mette in fila, ad aspettare. Domando a quelli in attesa con me se sanno il perché di tutto ciò, e mi spiegano che stiamo andando a fare una doccia. Una doccia! Non credevo ne avremmo mai fatta una! Però quelli che entrano non escono più. Mi dico che forse c’è un’altra uscita. Vedo fumo salire nel cielo, e penso sia perché la caldaia sta scaldando l’acqua. La fila si accorcia ed entriamo infine in una grande stanza, dove ci dobbiamo spogliare. Certo, non si è mai visto farsi una doccia da vestiti! Poi ci fanno entrare nella doccia. Ci chiudono dentro, ma penso sia per non far uscire l’acqua. Poi però non la vedo uscire da nessuna parte, ma sento solo una strana puzza e faccio fatica a respirare. Vedo i primi corpi accasciarsi. Ed è ora che realizzo tutto. Connetto ciò che è capitato e tutta la gente impegnata in un estenuante ed incessante lavoro e magra all’inverosimile che è entrata e non è più uscita, il fumo che saliva al cielo, e capisco che non uscirò più da qui. Ero una bambina, ora sono solo carne. Questo è la storia di moltissimi bambini ebrei, ma non è solo la loro storia. È quella di tutti gli ebrei morti per il solo fatto di credere nella loro fede, di tutti gli omosessuali, rom e quelli che erano diversi dai nazisti, tutti quelli considerati “inferiori” alla razza pura degli ariani, uccisi solo per essere quello che erano. No, non è stato dimenticato e non lo deve essere mai. Questo pezzo di storia non è stato cancellato. Deve essere invece testimonianza di ciò che l’uomo non dovrà mai più ripetere. La nostra voce sarà forte ogni qual volta che si vorrà dimenticare tutto ciò perché è più facile, ogni volta che si vorranno calpestare i diritti inviolabili dell’uomo,ogni volta che sarà necessario, sempre. Perché tutti gli innocenti, vittime dei nazisti, non siano morti invano, per dare loro il riscatto che meritano. Non dobbiamo avere paura del diverso, perché è nel confronto che si progredisce.

Monica Stival 4G

Antologia della Memoria realizzata dai ragazzi del Liceo Scientifico Grigoletti di Pordenone