Piccola premessa: Ubah Cristina Ali Farah, una delle scrittrici che partecipa alla Quattordicesima edizione di Adotta uno scrittore è stata vincitrice del Concorso Lingua Madre nel 2007. Grazie alla collaborazione che da alcuni anni portiamo avanti con il Concorso pubblichiamo qui il racconto vincitore.
MADRE PICCOLA * di Ubah Cristina Ali Farah [Somalia]
Habaryar,
Nuura non è potuta venire personalmente. Ha detto a me di venire qui, alla stazione, al posto suo. Mi ha detto “Vai e portale questo pacco, la ragazza sta andando a Londra e magari le capita di vedere mia figlia”. Allora io sono qui per consegnarti questo pacco, perché Nuura ha saputo che sua figlia ha partorito e vuole mandare un dono per la nipotina. Quando arrivi a Londra vai da tua cugina e dille che sua madre le ha mandato questo. Oggi Nuura non poteva venire, perché pulendo le scale le si è storta la caviglia e ora non riesce neanche a camminare. Vedi come è il destino.
Vai da tua cugina e dille che sua madre la benedice. Voi siete diventate moderne oggi, ma la benedizione di tua madre è quanto hai di più sacro. Siamo cresciute così e per noi quando i figli sono diventati adulti non abbiamo più incombenze. Vedrai che questo pacco non contiene grandi cose, ma è perché Nuura sta facendo economia, deve risparmiare. Quando guadagni così poco per risparmiare ti devi togliere il cibo dalla bocca. Quindi dì a tua cugina che non deve averne a male se il dono le sembra piccolo, perché i tempi sono cambiati e noi non siamo più quelle di una volta.
Habaryar,
sai, quando eravamo giovani vivevamo diversamente. Risparmiavi qualche soldo e ti compravi gli orecchini in filigrana d’oro anche se non avevi un materasso comodo dove dormire. E se qualcuno veniva dall’Italia o dall’America gli chiedevi se ti portava la borsa di pelle o il walkman. Così la tua povertà la nascondevi per bene. Allora uscivamo tutte agghindate e nascondevamo sotto un xirsi legato, perché non ci venisse addosso il malocchio degli invidiosi.
Adesso i tempi sono cambiati, ma una volta… ah una volta gli uomini si svaligiavano. Dal più povero ci facevamo invitare al restauranti e ordinavamo il pollo alla cacciatora, ma appena uno aveva più soldi, chiedevamo, Comprami un garbasar nuovo, invitami di qua, mi piace quel profumo lì. Ma tutto era solo per divertirci.
Habaryar,
senti questa storia.
Un giorno arriva uno di questi corteggiatori. Eccolo, si mette con la spalla appoggiato alla porta e le gambe in bella vista con i calzini bianchi che si vedono, sotto i pantaloni. E sai cosa aveva infilato nei calzini? Due biro: una blu e una rossa. Cammina, viene verso di noi, jak, jak, jak. Nuura mi guarda e mi dice piano all’orecchio: “Hoy! Questo è un intellettuale!”
Jak jak, jak si appoggia così, con la mano destra sul piano, con le gambe incrociate e dice:
“Oggi dove si va?” e Nuura mi sussurra all’orecchio:
“Guarda che questo qui non ha niente, non riusciamo a spillargli neppure un pollo!”
Così tocca a me rispondere all’intellettuale squattrinato:
“No, mio caro, non posso uscire, mia madre torna dalla farmashiiyo e se non mi trova dentro casa impazzisce dalla rabbia. Rimani un po’ qui a prendere del tè con noi!”
Così succedeva, ma giocavamo. Allora le cose erano diverse.
Ah mia cara nipotina, eravamo corteggiate da tutti e bisognava curarsi per splendere. La notte ti mettevi olio olivo nei capelli. Ci si cosparge con ogni cosa quando gli uomini non ci sono, così quando ti vedono e esci con loro, brilli tutta.
Ma qui le donne sono tutte diverse. Le europee, mi sembra che non capiscono niente. Guarda, parlano di pulizia. E la donna va lì in bagno, fa la pipì, si pulisce la sua cosa con un foglio, poi si lava le mani con il sapone per cucinare. Come puoi parlarmi di igiene se la tua cosa l’hai pulita con un foglio? Bisogna curarsi per splendere.
Habaryar,
tu non la puoi ricordare perché eri una bambina, Nuura, com’era da giovane. Era alta e tanto chiara che brillava come quella lampada lassù. Io e lei dormivamo nella stessa stanza. E gli uomini si svaligiavano, ma solo certi uomini. Quando sei innamorata certi giochetti non li fai più.
E c’era un reer xamar per cui lei la sera scioglieva la sua corda e scendeva giù dalla finestra. Lì era l’amore. E questo reer xamar stava dietro una finestrina piccola, là su un palazzo, mia cara, non ti puoi immaginare come vivevano i reer xamar a Mogadiscio. Stavano peggio di noi. Era povero. È così quando qui dicono due cuori e una capanna.
Ma come non te lo ricordi? I reer xamar abitavano le vie centrali. Anche noi siamo nate in via Roma a Mogadiscio. Ora mi hanno detto che in via Roma ci sono gli scoiattoli e le iene! Prima c’erano i negozi di scarpe e soprattutto quelli che vendevano la musica. Tu gli dicevi dammi Maikol Jakson oppure dammi Maryam Mursaal e loro, zzzz, ti registravano Maikol e Maryam in cinque minuti. Avevano un doppiatore di cassette, ecco cosa avevano. Cose da non crederci.
Vedrai, dentro al pacco c’è una cassetta. Per Nuura è stato più facile registrare la sua voce che scrivere. Lì, in quella cassetta, Nuura dice a sua figlia tutto quello che le vuole dire.
Habaryar,
lo sai che hai un’antenata reer xamar? Tuo bisnonno, Osman Yasin, nato nella città di Hobbyo. Andò a Mogadiscio e conobbe una ragazza reer xamar. Se ne innamorò perdutamente e la sposò. Sua moglie gli diede nove figlie. Ebbe fortuna e dopo diversi anni divenne ricco. Incontrò l’ostilità della famiglia della ragazza che cercò in tutti i modi di farlo tornare nella sua città d’origine con l’appoggio degli italiani. La sua stessa famiglia non vedeva di buon occhio la ragazza. Le ragazza reer xamar non sono coraggiose come le donne della boscaglia e poi questa partoriva solo figlie femmine. Sciocchina dalla testa frivola, non ci sono versi per insultarti, non ci sono versi per onorarti. Dayusey, madax dandaaley, haddii lagu caayo, cay baa wax kuu ahayn, haddii lagu faansho, faan baa wax kuu ahayn. Così le cantavano.
Habaryar,
lo so che i figli si coltivano. Ma noi siamo zingari, te ne sei dimenticata? Non è perché Nuura ama sua figlia meno di una madre normale. Questo dillo a tua cugina. Anche a me è successa la stessa cosa. I figli li metti al mondo e poi, Allah vede e provvede. È superbia pensare che puoi tutto sui tuoi figli. Non possiamo controllare gli avvenimenti che ci abbracciano la vita.
Ti racconto la mia storia. Mio fratello stava in Etiopia e combatteva contro il regime. Era
più di venti anni fa.
Io sono tornata in Somalia per vedere mia figlia. Ho avuto dieci giorni di tregua per incontrarla e poi sono finita in carcere per otto mesi, nelle carceri di sicurezza. Io non avevo a che fare con la politica, ma mio fratello sì. Quando sono riuscita a scappare sono arrivata al Cairo. Allora non c’era bisogno di documenti per entrare in Egitto. Poi sono venuta in Italia e qui sì che serviva il documento. Te l’ho detto che siamo zingari: sono arrivata ed ero Tanzaniana. Questo è accaduto quando volevo andare dalla mia prima figlia. Poi.
Quando è nato il mio ultimo figlio, io lo ricordo. È nato a Roma ed era il 5 novembre. In quel tempo davano Kunta Kinte alla televisione e il medico quando ha visto che mi doveva fare il cesareo ha detto che lo facevamo subito così nasceva Kunta Kinte in tempo per vedere il telefilm. Io mi sono molto arrabbiata.
Mio figlio è tornato in Somalia quando aveva otto mesi, ora ha 25 anni e mi vuole venire a trovare. Gli ho fatto mandare gli inviti e non l’hanno accettato, perché sta in Zimbabwe e ha il passaporto somalo anche se è nato qua. Non vedo mio figlio da dodici anni e questo non è giusto.
Habaryar,
io amo i miei figli, ma in questo paese i miei figli non sono la mia pensione. Un tempo la pensavo come te, pensavo che l’amore non è dignitoso ad una certa età, ma oggi penso che no, che certe cose anche nella vecchiaia non cambiano. L’amore ti fa sempre come una ragazzina.
Nuura fa un lavoro pesante, tutti i giorni a pulire le scale. E questo lavoro lo fa per riavere con sé il suo reer xamar, che è rimasto giù, bloccato in un campo profughi. Nuura ha due segni grossi sul braccio, due segni neri neri che si è fatta quando eravamo ragazzine. E quelle sono le incisioni con le iniziali del suo amato. Nuura scioglieva la corda e non la vedevi fino all’alba.
Una sera io quasi dormivo e nostra zia è arrivata.
“Dov’è Nuura, dov’è Nuura? Tu me lo devi dire!”
“No zia, non lo so!”
“Tu lo sai!” e io shib.
Non parlavo. È che Nuura una sera mi aveva detto:
“Sorella, tu lo sai che io ti amo, ma quest’uomo io lo amo in un modo diverso.”
Ed ecco perché io ero lì e non parlavo, stavo zitta e invece di rispondere, shib. Così andava.
Ma sai che una donna bella e giovane per chi nulla possiede è una merce di scambio a cui non si può rinunciare. Così l’hanno data, hanno data Nuura al vecchio senza occhio. Non era vecchio ma così ci pareva, perché eravamo ancora ragazzine. Il weershe aveva un sacco di cose da offrire, altrochè pollo alla cacciatora. E al weershe ha partorito quell’unica figlia a cui adesso tu devi portare il pacco.
Habaryar,
per una donna, l’amore che nutre per suo figlio è staccato dall’amore per il seme che l’ha generato. Tuo figlio è carne tua, cresciuta con il tuo latte, estirpata dal tuo sangue. Nuura ha sempre amato sua figlia. E tu sai che è l’unica che ha avuto il privilegio di partorire. Perché subito dopo, inaridito dal disamore, il suo ventre si è chiuso. Sono passati tanti anni prima che il weershe la ripudiasse. Voleva curarla la sua donna, quella merce preziosa per cui aveva sborsato scellini contanti. E solo alla fine, quando l’età è sopraggiunta e con essa la guerra, l’ha abbandonata a se stessa, libera di desiderare il suo reer xamar.
Habaryar,
guarda questa foto. È il quadro di una pittrice somala, si chiama Zeinab Abdulqaadir. Ora vive in Germania. Vedi queste sagome? Sono le persone addolorate, la guerra, la sofferenza. È diventata matta poverina. Ora sta in un ospedale psichiatrico.
Parla con tua cugina e ricordati di dirle che sua madre l’ama. Non serbate rancore per il suo amore reer xamar. I figli crescono e fanno altri figli. Sua figlia si consolerà dell’assenza di sua madre grazie ai suoi figli. Nuura ora non può nulla, ha smesso di mangiare per far venire il suo reer xamar.
* Il racconto “Madre Piccola” ha vinto il Primo premio della prima edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre nel 2006 ed è pubblicato nell’antologia Lingua Madre Duemilasei – Racconti di donne straniere in Italia” a cura di Daniela Finocchi, Edizioni Seb27.
Dallo sviluppo di questo racconto è nato il romanzo d’esordio omonimo di Ubah Cristina Ali Farah Madre piccola (Frassinelli)
In questo racconto si incontrano alcune parole somale, come hhabaryar e reer xamar e alcune varianti somale di parole italiane: “restauranti”, “farmashiiyo”, “olio olivo”, “weershe”. Habaryar significa zia maternal e, letteralmente tradotto, madre piccola. In somalo si usa rivolgersi ai nipoti chiamandoli “zia/zio”, o ai figli con “mamma/papa”. I reer Xamar sono gli abitanti di Mogadiscio di origine araba. Letteralmente significa “abitante di Xamar”, cioè Mogadiscio.