Ho preso infiniti treni per i miei incontri di poesia. Sono miei buoni alleati, durante il viaggio cerco di immaginare quello che mi aspetta, c’è possibilità di concentrazione anche più che a casa. I cellulari altrui disturbano? Ho trovato la soluzione: con gentilezza, molta cauta gentilezza, chiedo al disturbatore se può abbassare un po’ la voce, per ora mi è andata sempre bene, si scusano (“non me ne ero accorto”) e abbassano.

Dunque, il giorno 23, pensavo al Regina Margherita dove non ero mai stata, cercavo di immaginare il reparto, la stanza dell’incontro, le attese delle giovani ragazze, sotto tutto, come sempre, l’eterna domanda: sarò all’altezza?

Mi sono immaginata una stanzetta bianca, piccola, una specie di quieta nursery, con dentro solo io e loro.

Sbagliata in pieno. Durante il percorso in auto dalla stazione al Regina Margherita mi spiegano che l’incontro avverrà sotto una telecamera e alla presenza di professori vari. E che mi verrà chiesto cos’è per me la visione. La visione? Cosa c’entra? Panico. Tilt. Ma come? Come tessere un filo con le ragazze sotto una telecamera? Non lo sapevo. “Glielo avevamo scritto nel contratto”. Nebbia, non mi pare proprio. Spaventata (pensavate ai poeti come esseri senza paure?) cerco scappatoie come una lepre, solo un addetto cerca di capirmi e tranquillizzarmi.

Spesso cominciano male così gli incontri belli della vita. Appena arrivata nella bianca stanza, appena mi trovo tra loro, le più spaventate di me ragazze dell’incontro, tutto passa.

Al diavolo la telecamera, chisseneimporta, e le numerose presenze di professori e professoresse ( in camice mi pare verde) che mi circondano da ogni lato, forse non hanno i fucili puntati come in un fortino di film western, a guardarli bene hanno bei volti rassicuranti di professionisti che del dolore se ne intendono, come le ragazze che ho di fronte, e io con chi conosce il dolore mi sento a casa (con il resto del mondo meno).

Chiedo a ciascuna il suo nome (il nome è un mio chiodo fisso, infatti nelle mie fiabe i personaggi non ne hanno o li hanno sbagliati, i cognomi anche peggio, ne ho troppi, cioè nessuno (Vivian Daisy Donata Provera Pellegrinelli Comba Lamarque); scrivo i nomi delle ragazze con la matita su un bel foglio bianco, carta e matita sono, come il treno, miei alleati.

Le ragazze hanno scritto delle poesie e chiedo loro se se la sentono di leggerle a voce alta. Esitano ma poi lo fanno ma, come quasi sempre succede, come fossero prosa, spiego che al vizio dei poeti di andare a capo deve corrispondere ogni volta una breve pausa, rileggono così, con i loro bei volti intensi, con le loro voci autentiche, altro che il birignao finto-dolente degli attori che quando leggono poesia, rare le eccezioni, sono quasi sempre sopra le righe, insopportabili.

Le interviste su cosa sia per noi la “visione” (tema del Salone del libro di quest’anno) incombono (scusate, per me ogni domanda è un’interrogazione, un interrogatorio, anche a scuola mi salvavo solo con gli scritti ). Alcune ragazze sono intimidite, un paio invece, spalle al muro (letteralmente!) risponde, e bene anche. Io più che rispondere deliro, come sempre quando spaventata, parlo della visione di una creduta nevicata (con la neve sono fissata), era invece la vicina del piano di sopra che scuoteva lo straccio della polvere.

Si può rispondere peggio? E dire che il primo verso del mio nuovo libro in uscita dice “Altro che la visione delle immacolate vette dell’Himalaya” ma niente, questa risposta mi è venuta in mente solo tre giorni dopo che mi era stata fatta la domanda!

Tornate a noi, al nostro filo poetico, ho letto qualche verso, ho raccontato quanto lo scrivere mi abbia aiutato, sommato però all’incontro con il mio Dottore junghiano B.M., che è riuscito a restituirmi una parte d’infanzia ( “non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice”) e a ricostruire la linea di confine tra sogno e realtà che avevo del tutto cancellato.

Così dicendo, sottintendevo l’augurio anche per loro, care ragazze dai volti così sofferenti, di incontrare la carta, la matita e un grande Dottore, per esempio proprio lì, al Regina Margherita.

Mi hanno riportato agli anni in cui insegnavo in un liceo scientifico privato, tra le studentesse c’era una ragazza anoressica agli ultimi stadi, indomita alla fine delle lezioni mi chiedeva sempre più compiti, più compiti, quelli assegnati le sembravano sempre pochi. A metà anno fu ricoverata, andai a trovarla, temo siano intervenuti troppo tardi. Ma queste ragazze oggi le vedo circondate da un’équipe che mi pare straordinaria, si sente che sorrette così ce la faranno, si sente proprio nell’aria. Magari non tutte le paure passeranno, come a questa fissata della Lamarque, vedi sopra quante storie per una telecamera (la prima seduta chiesi al mio Dottore “se Lei muore da chi vado?”), ma ce la faranno.

Al ritorno, sull’alleato treno, ho riletto il foglio bianco con i loro nomi scritti a matita, e il loro colore e lunghezza di capelli, e alcune parole delle loro poesie, per non dimenticarle più.

Vivian Lamarque