Che cosa significa tradurre letteratura?
È questo il concetto che fa da perno all’intervento di Anita Raja al Salone del Libro 2020. Voce italiana di Christa Wolf e di altri grandi autori di lingua tedesca come Ingeborg Bachmann, Anita Raja, attraverso un discorso che intreccia esperienza personale e analisi testuale, arriva a dimostrare che per questo interrogativo non esiste una risposta univoca e universale.

“Tradurre significa stabilire una relazione interamente verbale che, partendo da un testo
scritto, genera un altro testo scritto”.

Questa “relazione interamente verbale”, sottolinea Raja, non deve essere interpretata soltanto come il rapporto tra due lingue, ma anche e soprattutto come il rapporto tra due scritture. Per arrivare a stabilire un rapporto di questo tipo è fondamentale che la traduttrice riconosca la disparità che intercorre tra il testo tradotto e il testo originale: soltanto così accetterà di accogliere il testo di partenza e di offrire ancor prima il proprio linguaggio con amore, passione e ammirazione. Questa disparità può essere interpretata come il piegarsi della propria capacità di linguaggio alle necessità del testo di partenza, in modo tale da reinventare ogni volta uno spazio linguistico che sia adatto ad esprimere i contenuti e i concetti che nel testo originale vengono formulati.

Accettare la disparità tra la traduzione e il testo originale non è dunque un atto di resa, ma al contrario è una negazione della resa, in quanto la traduttrice forza i propri limiti linguistici per riuscire ad esprimere con chiarezza la rete del testo con cui ha a che fare. Mettendo in evidenza la necessità di escogitare il modo migliore per ospitare le strutture e le forme dell’opera originale, Anita Raja intende riconoscere alla traduttrice la possibilità di inventare. Molto spesso accade infatti che chi traduce, in nome della fedeltà al testo, tenda a privarsi della propria inventiva; in realtà, dice la Raja, il traduttore dovrebbe cercare di agire con inventiva all’interno di tale fedeltà, in modo da riuscire a riprodurre in maniera ancor più devota le strutture formali, stilistiche e lessicali.

Chi traduce deve dunque saper accogliere, come le case verdi di quella Boemia idealizzata descritta da Ingeborg Bachmann nella poesia del 1968 Böhmen liegt am Meer in cui la scrittrice, rievocando l’espressione “jemandem grün sein” che idealmente significa “essere accoglienti”, associa al colore verde la formula della disposizione ospitale. Tutto questo Anita Raja lo ha appreso soprattutto dedicandosi alla traduzione dei testi di Christa Wolf, attraverso i quali è giunta alla conclusione che la massima ambizione a cui la traduzione letteraria deve aspirare consiste nell’ottenere nella lingua d’arrivo l’indeterminazione più precisa, la molteplicità di senso più limpida ed originale.

Chiara Guernieri, Emanuela Strozzi, Liceo Ariosto, Ferrara