“Non si può curare senza testimoniare”. E’ proprio questo, ancora oggi, lo scopo della clinica Centro internazionale Primo Levi di Parigi. Questo centro, nato nel 1995, è composto da un team di psicologi ed altre figure del settore, che seguono coloro che hanno subito violenze sia fisiche sia psicologiche. Tre sono gli obiettivi che la società si propone di perseguire: accoglienza, formazione e sensibilizzazione. Innanzitutto accolgono i rifugiati di qualsiasi stato (Repubblica democratica del Congo, Afghanistan e Turchia sono alcuni esempi). Successivamente l’équipe cerca di integrarli nel mondo del lavoro, attraverso l’insegnamento. Il collante del centro è  proprio la sensibilizzazione che porta i pazienti a “sentirsi esistere”, anche solo grazie ad uno sguardo.

La maggior parte dei pazienti sono legati tra loro da paura e precarietà e risulta problematico parlare della propria esperienza passata. Come l’incubo perenne di Primo Levi rifletteva la realtà del lager, così le vittime molto spesso cercano di fuggire da una realtà ostile.

Su questo filone si colloca l’esperienza di un ragazzo del Congo il quale, attraverso un lungo e difficoltoso percorso, è riuscito a “mettere in parole la tortura e l’esilio”. Egli ha recentemente pubblicato una raccolta di favole nella quale “il tempo verbale usato è solo il presente, niente passato e niente futuro”, emblema del suo stato d’animo.

Il lavoro svolto dalla clinica si può ricollegare al libro Primo Levi e i Tedeschi di Martina Mengoni:  la volontà di capire le reazioni del lettore (anche tedeschi) da parte di Primo Levi è infatti la stessa che spinge il team della clinica a prendersi cura dei rifugiati. Lo scrittore cercò di interloquire con i tedeschi per far arrivare “quelle virgole e quei punti” che contraddistinguono i suoi scritti. Durante gli anni ’60 questo suo rapporto con i tedeschi si materializza in una figura neutrale, mentre in seguito, verso gli anni ’70, l’atteggiamento verso il tedesco assume le sembianze di un “uomo tipicamente grigio”, con accezione negativa.

Durante un’intervista, Primo Levi, alla domanda di come avrebbe riscritto Se questo è un uomo, rispose che lo avrebbe modificato, poiché era convinto che “quelle cose fossero finite” ma “oggi non sono più finite”.

Sara Benini e Chiara Marchesin, Liceo Ariosto.